Nonostante l’esplicita modestia sulle intenzioni, questo volume, nato per offrire delle divagazioni filosofiche – sul coronavirus – ai tempi del coronavirus, accettando quindi il «rischio di scrivere qualcosa che probabilmente apparirà come anacronistico soltanto tra un paio d’anni, secondo l’andamento futuro della pandemia, le considerazioni che via via eliciterà» (p. 8), a distanza di due anni dalla sua pubblicazione si rivela persino più attuale e quelle considerazioni che nel 2020 apparivano soltanto come indizi teorici di effetti ancora non del tutto evidenti trovano adesso la loro conferma empirica, segno questo del fatto che, è vero, i filosofi non sono né virologi né politici e neanche epidemiologi e la filosofia pandemica non è für ewig, ma è del filosofo «lo sguardo colmo di saggezza» (p. 8) e della filosofia sapere cogliere l’invisibile a partire dal visibile.
Oggi però non devono essere più solo i sapienti a sapere osservare, ma come cittadini privati dei nostri diritti e della nostra libertà dobbiamo tutti imparare a guardare intorno a noi quello che è accaduto con consapevolezza e lucidità senza alcuna dissonanza cognitiva, come quella che Pennisi attribuisce agli Stati che – all’inizio della vicenda – non hanno prontamente agito con misure restrittive ma che in realtà dice molto di più sulla vera natura dell’epidemia che va sotto il nome di COVID-19.
È nell’incertezza che il virus ci ha precipitato, o forse, più correttamente, riconsegnato. La prima manifestazione di questa incertezza, è quella del diritto, vale a dire di quella disciplina dalla quale ci aspetteremmo invece maggiore rigore e precisione ma, come ricorda Schiavello, «il linguaggio giuridico, come tutti i linguaggi naturali, contiene termini e sintagmi generali e questi ultimi producono dubbi interpretativi di varia natura» (p. 167). La pratica forense è infatti incerta per definizione, ma non come pronunciamento difforme «nelle elaborate sentenze all’uopo emesse dai loro più lucubrativi magistrati: i quali ritennero di dover emanare, da un caso all’altro, pareri divergenti: ossia dispareri» (C.E. Gadda, La cognizione del dolore, Adelphi, Milano 2019, p. 16), bensì come apertura e applicabilità a ciò che ancora ha da accadere. Come ha teorizzato il giusfilosofo Hart, il diritto deve ottemperare a due istanze diverse: la flessibilità da una parte, che rende la materia forense valida nel tempo e nella storia, la certezza dall’altra parte, come criterio fermo a cui affidare la valutazione delle proprie azioni, e per essere così sicuri di stare percorrendo il perimetro che rientra ancora entro la nozione di prossimità.
Che i decreti e le misure siano stati labili, contraddittori, superati un attimo dopo essere stati varati è sicuramente vero e va assunto come ennesimo monito di ciò che la vicenda da Sars-2 è stata – perché se avessero avuto come primo obiettivo la salute forse sarebbero stati chiari e quindi efficaci sin da subito e una volta per tutte – ma ciò che però desta più allarme è la richiesta di queste leggi più prescrittive da parte di liberi cittadini. Stando alla lettura psicoanalitica sulle ragioni che stanno dietro tale certezza del diritto proposta negli anni Trenta del secolo scorso dal giurista statunitense Jerome Frank noi «ci affideremmo al diritto perché questo modo di comportarci ci rassicura e ci mette al riparo dal caos del mondo esterno», ma il valore prescrittivo della legge non dovrebbe comportare la rinuncia alla propria autonomia, infatti «raggiungere l’età adulta significa però decidere con la propria testa», pertanto, «pretendere che il diritto ci indichi al millimetro di quanto possiamo allontanarci dalla nostra abitazione non significa soltanto prescindere dalle caratteristiche del diritto contemporaneo ma, a voler dar retta a Frank, è anche indizio di una regressione all’età infantile» (p. 167).
È proprio questa regressione all’età infantile ad avere favorito l’estendersi di forme di paternalismo, che sembravano confinate al mero ambito medico, al più complesso sistema politico. A ben guardare, lo Stato è partito proprio da quel paternalismo sanitario per ottenere un controllo poi totale nella vita delle persone: «è, infatti, l’esecutivo politico che a monte detiene i mezzi per imporre le scelte da fare e per prescrivere le conseguenti misure legali atte a favorire, prevenire, influenzare o migliorare, le condizioni e gli stili di vita per la salvaguardia della salute. Pertanto, l’ambito della sanità pubblica non può essere sganciato dalla più ampia categoria della politica pubblica in cui un certo livello di interferenza con la libertà e la mancanza del consenso individuale è, per così dire, endemico» (p. 112).
Nelle analisi di Graziano il paternalismo si confronta con la rispondenza fiduciaria teorizzata da Robert Dahl (1981) e con il Welfare. Rispetto alla prima, che stabilisce la capacità dei governanti di rispondere alle attese dei governati, il paternalismo non risponde ad alcuna attesa, piuttosto fa diventare attesa ciò su cui esso è già intervenuto. Rispetto al secondo, anch’esso nato e sollecitato dalle istanze dei cittadini, il paternalismo anticipa tali istanze e impone le sue soluzioni: «il Welfare non è un sistema paternalistico poiché esso non prescinde dalle domande effettivamente formulate dai cittadini. Nondimeno, reggendosi sui tempi democratici dell’attività e del confronto parlamentare, il Welfare ha la caratteristica di essere lento e ponderato nella formulazione delle risposte attese. Al contrario, il paternalismo anticipa le domande e impone le sue soluzioni anche contro le volontà dei soggetti. In altre parole, il paternalismo non risponde a nessuna richiesta, piuttosto si sovrappone e si sostituisce ai cittadini nel formularle» (pp. 115-116).
In questo modo la domanda per un rafforzamento del servizio sanitario verrà sostituita dalla convinzione che la salute passa per l’utilizzo di dispositivi igienici; quella dell’occupazione dal lavoro smart e quella dell’equa distribuzione della ricchezza dalla cassa integrazione per alcuni e dalla garanzia di uno stipendio statale da potere usufruire comodamente da casa per altri. Va detto: «Si può morire, e si muore, di virus ma si può morire, si muore e si morrà, di miseria» (p. 27).
La risposta a questo paternalismo passerà, secondo Cardella, anche per un elogio della solitudine che non è sinonimo di distanziamento e/o di reclusione nella propria abitazione, bensì prova di responsabilità e di coraggio: «come singoli, senza che qualcuno si prenda cura di noi sostituendosi a noi, possiamo ritrovare la capacità decisionale, e quindi la libertà» (p. 47).
A questa stessa autonomia e ‘solitudine’ dovrebbe ritornare anche la scienza – vittima e carnefice di questa situazione – prostituita invece agli interessi di una classe dirigente che l’ha resa di nuovo positiva – nel senso di positum – con il suo attaccamento al cosiddetto mito del dato, e infalsificabile, atteggiamenti questi che l’epistemologia ha da tempo ormai superato. Complice, in tutto questo anche «l’informazione [che] guarda ai dati quantitativi come quelli che meglio descrivono e catturano l’immagine dinamica dei cambiamenti in atto» (p. 39) e che per questo ha fornito e continua a fornire un resoconto – quanto mai approssimativo – dei positivi e dei guariti, dei vivi e dei morti. Dati questi che di matematico hanno solo il numero a causa dell’imprecisione – denunciata da Carapezza – dei mezzi di raccolta e dei campioni coinvolti che non hanno mai chiarito chi è morto «con il coronavirus e chi è morto per il coronavirus» (p. 39). Forse, in fin dei conti deve essere chiaro anche ai facitori di questa scienza così antiscientifica che il dato osservativo è sempre parassitario rispetto a quello teorico, e che «sono le persone a costruire cornici di senso in cui i dati hanno senso, anzi cornici di senso all’interno delle quali s’individuano i dati da cercare» (p. 40). Tuttavia, il riferimento quantitativo, benché insufficiente e mai neutro, è comunque utile perché ci rivela qualcosa di importante sul COVID-19. Rispetto alle grandi epidemie della storia, Pennisi e Chiricò rilevano infatti che: «al 1 luglio 2020 i contagiati sono 10.321.689 (la cinquantesima parte di quelli registrati dalla Spagnola) e i deceduti 507.435 (la centesima parte dei morti della Spagnola – Dati OMS). Per converso la popolazione mondiale è salita alla vertiginosa cifra di 7.700.000.000 di esseri umani portando il tasso di contagio globale medio (naturalmente sino ad ora) allo 0,13 % e quello di mortalità allo 0,01%. Com’è facile constatare dal punto di vista dei grandi numeri, quelli che “fotografano” il frame evolutivo dell’intero film della vita umana, c’è un abisso di differenza nell’arco di pochi secoli. La morte della metà della popolazione a causa della peste nera non è minimamente paragonabile né a quella della spagnola (2,7%) né, tantomeno, a quella dell’attuale COVID-19 che ci ha rovinato sonni e sogni dell’ultimo semestre (0,01%)» (p. 147).
Resta invece incerto il numero delle morti – naturali o volontarie che siano – a causa di patologie negative al tampone rapido, vale a dire il numero dei morti che c’erano già prima che un virus facesse il suo ingresso nei nostri organismi. Morti che ci sono mentre il virus sembra essere l’unica causa di scomparsa, e ci saranno anche dopo quando, come la storia ci insegna, questo virus scomparirà. È la morte che invece non scomparirà. È la morte l’unica certezza che abbiamo rispetto all’incertezza della vita. Il virus ce l’ha solo ricordato. Con la sua consueta efficacia, scrive Biuso: «è bastato […] un ente che la ricerca biochimica pone al confine tra la vita e la non vita […] per mostrare la fragilità della grande vita, della vita per eccellenza, della vita che, come ironizza Nietzsche, chiama la propria storia la storia del mondo. È bastato un virus nuovo, anche se poco letale, per rendere evidente il fatto ancestrale dell’appartenenza dell’umano all’intero, nonostante tutte le patetiche e pericolose pretese di separatezza ontologica di Homo sapiens» (p. 23).
Separatezza interspecie che diventa anche la premessa di una separatezza intraspecie, quella che in questi anni ha distinto tra mostri, eroi e nemici. Quale che sia la differenza ad accomunarci tutti sarà comunque la Morte che lascerà del tutto indifferente il nostro pianeta come ha da dire la Natura all’Islandese: «se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvederei» (G. Leopardi, Dialogo della natura e di un islandese, in Id., Operette morali, Mondadori, Milano 2016, p. 97).
La vita resterà sempre qualcosa di molto più olistico del mero funzionamento di una sua parte. Qualcosa che alla fine si spegnerà comunque. La vera ‘cecità cognitiva’, per rispondere a Pennisi, è questa.
Se i filosofi in ciabatte sono coloro che hanno visto tutto questo quando l’epidemia era al suo sorgere, diremo allora che essi non sono semplicemente quelli che, come l’Armchair Science sono stati confinati in casa, ma quelli che da casa hanno continuato a osservare il mondo senza lo schermo di un televisore, quelli che il reale hanno scelto di non ridurlo in ologramma, quelli che hanno preferito la propria poltrona a quella di un programma televisivo e per cui diventa un vanto non vedere comparire il proprio nome e i propri libri nei media mainstream come è accaduto ad Agamben: «Nella cupa situazione in cui ci troviamo ci sono a volte delle buone notizie. Una di queste è per me la decisione della stampa cosiddetta del mainstream di non recensire i miei libri e di non nominare in alcun modo il mio nome. Che il mio nome compaia su quelle pagine che nei due ultimi anni hanno mostrato il loro servilismo sarebbe per me causa di disagio e non posso che essere grato ai giornalisti per la loro decisione. Il contegno dei media in questi due anni resterà infatti come una delle pagine più vergognose nella storia del nostro paese» (G. Agamben, Una buona notizia, www.quodlibet.it/giorgio-agamben-una-buona-notizia). Questo segna la differenza tra la chiacchiera e la filosofia: la prima si è dimenticata come pensare, la seconda non ha mai smesso di farlo.
(30 settembre 2022)