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144. Recensione a: Silvia Dadà, Etica della vulnerabilità, Morcelliana, Brescia 2022, pp. 144. (Lorenzo Carbone)

Nel corso del Novecento fino ad oggi si è verificata una serie di eventi storici che pongono l’essere umano di fronte alla propria fragilità. Le due guerre mondiali e lo scoppio della bomba atomica, la rivoluzione tecnologica e la legge del mercato, il fenomeno migratorio e la pandemia di Covid 19 mostrano l’impossibilità di controllo sul mondo, che per lungo tempo ha accompagnato il sogno dell’Occidente. In questo contesto, pensare alla vulnerabilità diventa inevitabile. Tuttavia, questa condizione umana, intesa come dinamica esposizione all’altro e al mondo esterno, può mettere in atto potenzialità che consentirebbero di elaborare un vero e proprio scenario etico. È esattamente da queste premesse che prende forma il percorso tracciato da Silvia Dadà in Etica della vulnerabilità, edito da Morcelliana. La prospettiva dell’autrice ha l’obiettivo di coniugare la riflessione etica levinasiana (e, più in generale, la filosofia francese contemporanea) con le filosofie femministe di area anglo-americana, che trovano un comune denominatore nell’ethics of care. Il libro si suddivide in tre momenti fondamentali. Inizialmente, viene indagato il concetto di vulnerabilità in rapporto alla motivazione che guida i nostri comportamenti; dopodiché, il ruolo della vulnerabilità trova applicazione nella riflessione politica; infine, la relazione di cura nell’ambito medico consente di esplicitare una bioetica della vulnerabilità. Quest’ultimo aspetto è ulteriormente approfondito dall’autrice nel volume Maternità e alterità. Per una bioetica della cura (ETS, Pisa 2021).
Nel primo capitolo la vulnerabilità si rivela «una proprietà della relazione» (p. 11), ciò che dà movimento al mondo, mostrando la nostra reciproca interdipendenza. L’idea moderna di un rapporto con l’altro instaurato tramite il possesso, la completa comprensione e il controllo perde consistenza. Un ripensamento della corporeità consente di stabilire una «nuova forma di accesso all’alterità» (p. 17). Oltre a coincidere con me, il corpo ci pone in relazione con ciò che sta fuori, oltre di noi. L’immagine husserliana delle mani che si toccano, toccate e toccanti allo stesso tempo è emblematica. L’idea di un soggetto incarnato consente di superare la concezione imperturbabile dell’io che, storicamente, ha accompagnato l’epoca moderna a partire dalle filosofie ellenistiche. Il corpo «è lo scoglio su cui si infrange la coscienza» (p. 21), il punto di contatto del soggetto con ciò che sta fuori e, ancora, «il luogo della commistione tra identità e alterità» (p. 22) attraverso il piacere e il dolore. È in questa completa esposizione che l’essere umano si scopre fragile e vulnerabile. D’altronde, la stessa etimologia del termine vulnerabilità rimanda al vulnus, ferita e danno corporei.
Un altro aspetto da considerare riguarda le passioni. Nella storia del pensiero, ad esse viene relegato un ruolo secondario e sussidiario rispetto alla razionalità, ma «il soggetto non è e non deve essere privato della sfera emotiva» (p. 33). Esso è perturbabile, poiché subisce l’influenza dell’alterità e, allo stesso tempo, si rivolge all’esterno tramite le proprie pulsioni. Le passioni mettono in scena l’ambivalenza propria della vulnerabilità, che «non è solo sofferenza, ma anche accoglienza della vita» (p. 36). Non è soltanto il soggetto ad essere vulnerabile in relazione all’alterità. Anche l’Altro è vulnerabile a causa del sé. L’Altro è tale nella misura in cui è irriducibile, imprevedibile e incalcolabile rispetto al soggetto. A partire da questa constatazione, Dadà declina due sensi per riferirsi all’alterità, ovvero l’altro uomo e il mondo vivente.
L’altro uomo può subire la violenza da parte dell’Io che tenta di assimilarlo o, addirittura, annullarlo. È quindi sempre esposto al dolore e alla sofferenza, al freddo, alla fame, alle violenze. La vulnerabilità dell’altro uomo esprime una distanza; egli si rapporta alla morte e alle proprie emozioni in modo unico ed estraneo al sé. Per quanto riguarda l’alterità del mondo, forse mai come oggi esso è in pericolo. La vulnerabilità del mondo risiede nella sua possibilità di subire una forma di distruzione e annullamento. Nella storia del pensiero, la figura di Prometeo, colui che ha donato all’uomo la tecnica, rappresenta l’immagine del soggetto che diviene onnipotente, padrone del mondo. Oggi questa stessa potenza rivela l’enorme fragilità a cui siamo esposti. Basti pensare alle possibilità distruttive della bomba atomica e degli effetti del cambiamento climatico. Entrambi questi fenomeni sono conseguenze della violenza esercitata dall’uomo nei confronti del mondo.
La soggettività e l’alterità comunicano e stabiliscono un legame attraverso la relazione. Ogni punto di contatto rivela la continua esposizione di ognuno a se stesso, agli altri e al mondo. E «di fronte all’altro che soffre, di fronte al rischio di distruzione del pianeta, possiamo davvero solo fermarci a una costatazione?» (p. 53) La possibilità di cogliere la vulnerabilità altrui e di soffrirne può spingere verso una relazione positiva di compartecipazione e cura al dolore dell’altro, ma essa può anche direzionarsi verso una relazione negativa, in cui si esercitano volontariamente forme di crudeltà, a partire dalla comprensione di ciò che l’altro prova. Per divenire un motore etico, più che rivolgersi alla capacità empatica (di cui è importante riconoscere il ruolo fondamentale), il terreno di azione si sposta sul piano della responsabilità. La responsabilità è tradizionalmente intesa come causa e risposta ad una determinata azione compiuta dal soggetto. In questo caso, si intende la responsabilità come rispondere di qualche cosa che si è fatto. L’Io, però, si trova costantemente faccia a faccia con l’altro; un contatto a cui non è possibile sfuggire e la cui irruzione non è pacifica. Ecco che, a partire da questa relazione, si connette un altro significato della responsabilità, intesa come rispondere per l’altro, nei casi in cui costui non ha voce. Il legame tra responsabilità e vulnerabilità diventa stringente: «è proprio attraverso la responsabilità che originariamente mi coinvolge che la vulnerabilità altrui da mero fatto diventa il focus del mio agire» (p. 63). Seguendo la prospettiva levinasiana, di fronte all’altrui sofferenza non possiamo tirarci indietro, poiché ne siamo in qualche modo responsabili, ovvero chiamati a rispondere per l’altro. Siamo chiamati a rispondere per l’altro anche se tale alterità è lontana nel tempo e nello spazio, perfino nel caso in cui io non provi alcuna empatia verso l’altro.
Nel secondo capitolo viene approfondito il nesso tra vulnerabilità e politica. La filosofia politica di impostazione hobbesiana vede nella vulnerabilità un limite da arginare. Nella perenne lotta di tutti contro tutti, l’uomo è costantemente in pericolo di fronte al suo prossimo e perciò si affida allo Stato al fine di tutelare la propria sicurezza, in cambio della cessione delle libertà individuali. Lo scenario che si prospetta in questa cornice presenta due gravi conseguenze. Da un lato, la legittimità del potere in mano ad una sola persona (il sovrano) rischia di fomentare politiche autoritarie; d’altro lato, in questa prospettiva non si coglie il potenziale performativo della vulnerabilità, relegata ad uno spazio marginale che la politica tenta di annullare. Le teorie contrattualistiche nascono dal presupposto che per stipulare il patto tra individuo e società sia necessario affermare il principio di autonomia del singolo, in netta contrapposizione a qualsiasi forma di dipendenza. Questa impostazione esclude una buona fetta di umanità dallo spazio di uguaglianza, «mentre la vulnerabilità e la dipendenza accomunano tutti» (p. 86). La nostra uguaglianza, quindi, non è data da una qualche forma di autonomia individualistica. Sono le relazioni di dipendenza e di cura che ci legano gli uni agli altri fin dalla notte dei tempi. La falsa contrapposizione autonomia/dipendenza va ripensata attraverso l’espressione di una ‘‘autonomia relazionale’’, un concetto diffuso soprattutto a partire dalle filosofie femministe. Un soggetto, infatti è costituito nella sua identità dalla rete di relazioni in cui è coinvolto e dai fattori politici e sociali in cui si trova a vivere: «siamo autonomi non soltanto quando siamo in grado di riconoscerci come origine delle nostre scelte, ma anche quando gli altri ci riconoscono in quanto tali e ci rispettano» (p. 88). Solo in questo modo la solidarietà e l’aiuto reciproco procedono di pari passo con la ricerca dell’autonomia.
Un ultimo aspetto da considerare in questo capitolo concerne una particolare declinazione della forza propulsiva della vulnerabilità. La protesta nonviolenta nelle piazze da parte di minoranze raziali, migranti, comunità lgbtq+ e lavoratori precari mette in scena pratiche di aggregazione attraverso l’uso del corpo e l’occupazione fisica dello spazio per mettere in discussione e porre resistenza rispetto a convenzioni sociali e politiche. La vulnerabilità si scopre così motore dell’azione politica di fronte alla percezione dell’ingiustizia, ma anche lo strumento utilizzato per contrastare la violenza e la discriminazione.
Al centro del terzo capitolo sta il nesso tra bioetica e vulnerabilità. Nella relazione tra medico e paziente, l’adeguata comunicazione tra i due interlocutori consente di rispettare il consenso informato. Quest’ultimo è un elemento fondamentale che permette al paziente di prendere una decisione senza impedimenti sostanziali (come il deficit di comprensione) o esterni (come una costrizione esterna al soggetto coinvolto nella cura). Sebbene sia opportuno riconoscere il fondamentale ruolo svolto dal rispetto dell’autonomia e dal consenso informato, spesso questa formulazione risulta parziale. Sulla base di uno studio dei principali documenti redatti in ambito bioetico sembra che, laddove ci sia autonomia, la vulnerabilità sia quantomeno diminuita, mentre nel caso di soggetti particolarmente fragili si ha una carenza di autonomia a cui bisogna rimediare. La falsa contrapposizione tra vulnerabilità e autonomia può essere superata riprendendo, in ambito bioetico, il concetto di autonomia relazionale: «siamo tutti vulnerabili e differenti situazioni si intrecciano e ci rendono ognuno vulnerabile secondo una specifica e differente intensità, che necessita una personalizzata attenzione» (p.124).
In uno scenario più ampio, possiamo osservare che l’etica della vulnerabilità consente di affrontare due problematiche del tempo in cui viviamo: da una parte, il dilagante nichilismo narcisistico, che non permette di costruire un approccio propositivo alla realtà; dall’altra parte, il delirio di onnipotenza umana, che ha la presunzione di tenere sotto controllo ogni aspetto dell’agire ed è perciò destinato a soccombere. Dal riconoscimento di una condizione comune di fragilità dell’essere umano, l’etica della vulnerabilità sviluppa il proprio potenziale grazie alla rete di relazioni che lega gli uni agli altri. Silvia Dadà sottolinea che tutti siamo vulnerabili dell’altrui vulnerabilità e a partire da questo motore etico prendono forma la cura e la responsabilità verso gli altri, il mondo e, quindi, noi stessi: «la vulnerabilità, quindi è, sì, il problema di fondo, ma un’etica relazionale della vulnerabilità è anche la via d’uscita di fronte alle difficoltà che il nostro essere fragili ci pone di fronte» (p. 132).

(18 gennaio 2023)

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