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147. Recensione a: Leo Strauss, La filosofia politica di Hobbes. Il suo fondamento e la sua genesi, a cura di C. Altini, ETS, Pisa 2022, pp. 248. (Cristiano Barbieri)

La filosofia politica di Hobbes. Il suo fondamento e la sua genesi è senza dubbio uno dei libri più importanti di Leo Strauss (1899-1973). Il lettore e l’appassionato non possono che rallegrarsi nel vedere di nuovo pubblicato un testo fondamentale che era ormai introvabile da molti anni. Questo studio hobbesiano risalente al 1936 è stato decisivo per la carriera universitaria di Strauss. L’autore ha speso molto tempo e fatica per redigerlo e si è recato personalmente negli archivi di Chatsworth per studiare i manoscritti autografi. Il testo ha rivoluzionato gli studi hobbesiani: «Lungi dal riproporre – scrive Carlo Altini, uno dei maggiori esperti del filosofo tedesco – la vecchia immagine del filosofo del Leviathan quale adoratore dell’assolutismo, Strauss individua nel razionalismo hobbesiano la radice della cultura moderna. Il fatto che Hobbes sia un difensore dell’assolutismo non è per niente in contrasto con il suo liberalismo: questa considerazione prova solo che egli era ben consapevole della potenza degli ostacoli che il liberalismo doveva superare e che derivano non solo dagli antichi poteri della Chiesa e dello Stato feudale, ma anche, e soprattutto, della stessa natura umana» (C. Altini, Introduzione a Leo Strauss, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 44-45).
Fin dalle pagine iniziali, il filosofo tedesco demolisce un dogma della storiografia tradizionale, ossia l’idea secondo cui la filosofia di Hobbes sarebbe stata massicciamente influenzata dal metodo galileiano delle scienze naturali-sperimentali. Norberto Bobbio, nel suo celebre volume dedicato al pensatore inglese, afferma che Hobbes ha introdotto il metodo geometrico nelle scienze morali e politiche per annullare la disparità e la differenza di opinione. D’altronde, non è difficile rintracciare nelle fonti primarie passi a suffragio di questa tesi storiografica: «L’abilità di fare e mantenere gli stati – si legge nelle ultime righe del XX capitolo del Leviathan – consiste in certe regole, come l’aritmetica e la geometria, non nella pratica soltanto; tali regole, gli uomini dappoco non hanno l’agio, e quelli che l’hanno avuto, non hanno avuto finora la curiosità o il metodo per scoprirle». Uno dei meriti principali della lettura straussiana del pensiero politico di Hobbes risiede nell’aver abbandonato questa interpretazione meramente positivistica del filosofo inglese: «Attraverso l’analisi del primo pensiero di Hobbes – scrive Strauss nella prefazione – siamo in grado di capire che la sua originale concezione della vita umana era presente nella sua mente prima che egli venisse a conoscenza della scienza moderna e pertanto siamo in grado di stabilire il fatto che quella concezione è indipendente dalla scienza moderna» (pp. 66-67). Inoltre, «la filosofia politica [di Hobbes] è indipendente dalla scienza naturale perché i suoi principi non sono tratti dalla scienza naturale e, in più, non sono tratti da alcuna scienza, ma sono forniti dall’esperienza, dall’esperienza che ognuno ha di se stesso» (pp. 83-84).
Non mancano nel volume la messa in evidenza delle più note teorie hobbesiane: il timore della morte violenta, la scoperta degli scritti di Euclide, la funzione politica della paura, il primato della pratica sulla teoria, la distruzione dell’immagine aristotelica dell’uomo come animale sociale. Strauss ha spiegato che l’avversione di Hobbes per Aristotele non va totalmente presa sul serio poiché l’analisi delle passioni e degli affetti deriva in buona parte dallo studio della Retorica; anche Heidegger, quasi trecento anni dopo, si richiamerà a quest’opera aristotelica per l’analisi delle emozioni in Sein und Zeit (1927). Notevole è stata anche l’influenza di Tucidide che insegna al filosofo inglese ad “amare” la monarchia e ad “odiare” la democrazia. Per tutta la vita Hobbes considerò la monarchia come la miglior forma di governo. Ovviamente, per rendere conto di questa opinione, bisogna considerare anche la situazione storica riguardante le guerre civili di religione che nel Seicento hanno insanguinato l’Europa. Si trovano tracce di questi eventi storici nelle pagine del Leviathan. Ad esempio, Hobbes, nella conclusione dell’opera, dopo aver ricordato il suo amico Sidney Godolphin ucciso durante la guerra civile, afferma di aver condotto a termine il suo discorso sul governo civile ed ecclesiastico «occasionato dai disordini del tempo presente».
Leo Strauss considera Hobbes il fondatore della morale borghese; egli è il primo pensatore della borghesia poiché sostituisce la virtù aristocratica dell’onore con la paura della morte violenta (cfr. p. 191). Ciò significa che l’uomo deve uscire dallo stato di natura, dove c’è realmente il pericolo della morte violenta, per raggiungere lo stato politico al fine di godere dei frutti della propria industria. «Anche la sua tagliente critica della borghesia non ha nessun altro scopo che far ricordare alla borghesia la condizione elementare per la sua esistenza» (p. 196). La proprietà privata e il profitto privato rappresentano una «condizione indispensabile per una vita pacifica» (p. 193). Ragionando in questo modo, il filosofo non ha fatto altro che trasformare la filosofia politica in storia: «Per Hobbes la storia diventa superflua perché la filosofia politica diventa una storia, una storia tipica. La sua filosofia politica diventa storica perché per lui l’ordine non è immutabile, eterno ed esistente fin dall’inizio, ma viene prodotto proprio alla fine del processo; perché per lui l’ordine non è indipendente dal volere umano, ma è prodotto proprio dal volere umano» (p. 179).
Negli stessi anni in cui Leo Strauss lavora alla sua monografia, Max Horkheimer, uno dei più importanti esponenti della Scuola di Francoforte, riflette sulle radici della moderna filosofia della storia. Anche secondo Horkheimer il pensiero dell’autore del Leviathan include implicitamente una filosofia della storia che si tratta di esplicitare. Vale la pena di citare per intero il passo in cui il filosofo francofortese si confronta con Hobbes al fine di comprendere adeguatamente in che senso Strauss abbia inteso il medesimo problema: «Per Hobbes e per l’Illuminismo, la ragione consiste quindi in una serie di conoscenze che possono essere accresciute in ogni istante sulla base dell’esperienza e del pensiero logico-deduttivo; ma gli elementi di questa serie sarebbero fissati una volta per tutte, e una volta trovati non dovrebbero più essere messi in discussione. Esiste quindi non solo un concetto assolutamente valido di natura, ma anche un concetto di moralità e di vero interesse di tutti gli uomini generalmente valido nel tempo e nello spazio; tutte le categorie riferite all’idea della società e dello Stato, riconosciute giuste una volta per tutte, sono pensate come perenni. La storia si presenta allora essenzialmente come il processo in cui l’umanità acquista il pieno possesso della ragione; con esso sarebbe senz’altro creato anche il migliore ordinamento della società, al quale si aspira come a uno stato finale» (M. Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia, Einaudi, Torino 1978, p. 49).
Con la modernità, la storia irrompe nella filosofia e svolge una funzione strategica nell’organizzazione del discorso politico e ontologico. Gli illuministi moderni (che Strauss vuole accuratamente distinguere dagli illuministi medievali) presentano la storia come il rischiaramento progressivo della ragione umana. Chi abbia letto solamente la monografia su Hobbes difficilmente riuscirà a cogliere la posizione di Strauss sulla modernità. La preziosa (e dottissima) introduzione al testo di Carlo Altini può aiutare chiunque voglia accedere al laboratorio filosofico-politico del giovane ebreo-tedesco: «Nell’interpretazione di Strauss, nettamente critica riguardo non solo al pensiero hobbesiano ma all’intera filosofia politica moderna, si apre così l’abisso verso il relativismo e il nichilismo novecentesco» (p. 49). La filosofia di Hobbes viene approfondita da Strauss anche in altri testi fondamentali dove emerge la critica radicale nei confronti dello storicismo, del relativismo e del nichilismo. Innanzitutto, il pensatore ebreo-tedesco ha sempre rivendicato di essere un filosofo politico, e non un pensatore politico: «La filosofia politica dovrebbe essere distinta dal pensiero politico in generale. Nel nostro tempo, essi sono frequentemente identificati. […]. Quindi, ogni filosofia politica è pensiero politico ma non viceversa. Il pensiero politico è, come tale, indifferente alla distinzione tra opinione e conoscenza; la filosofia politica, invece, è lo sforzo cosciente, coerente e incessante di sostituire le opinioni sui fondamenti politici con la loro conoscenza» (L. Strauss, Che cos’è la filosofia politica?, il Melangolo, Genova 2011, p. 12). Hobbes ha eliminato l’antico problema della ricerca della vita buona per sostituirlo con il tentativo di realizzazione del miglior ordine politico.
La condanna definitiva di Hobbes da parte di Strauss si trova in uno stupendo passo di Natural Right and History: «Una sola obiezione fondamentale alla sua posizione Hobbes vedeva; ma di quella aveva una assai viva coscienza e fece ogni sforzo per superarla. In molti casi la paura della morte violenta si dimostrava col fatto una forza più debole che la paura delle fiamme infernali o la paura di Dio. La difficoltà è ben illustrata da due distinti passi del Leviathan. Nel primo, egli dice che il timore del potere umano, la paura della morte violenta, è “abitualmente” più grande che la paura del potere di “spiriti invisibili”, cioè che la religione. Nel secondo egli dice che “la paura degli spettri e del buio è più grande delle altre paure”. Hobbes vide una via per risolvere questa contraddizione: la paura di potenze invisibili è più forte della paura della morte violenta nella misura in cui gli uomini credono in quelle: cioè nella misura in cui essi sono nel cerchio magico di un inganno circa il vero carattere della realtà; la paura della morte violenta giunge pienamente nel suo proprio essere non appena gli uomini sono stati illuminati circa la verità. Questo vuol dire che tutto lo schema proposto da Hobbes esige per funzionare l’indebolimento, o piuttosto, l’eliminazione della paura di potenze arcane. Esige un mutamento profondo di indirizzo quale può produrre solo il disincanto del mondo, solo la diffusione della conoscenza scientifica o l’“illuminazione” del popolo. Quella di Hobbes è la prima dottrina che necessariamente ed inequivocabilmente miri ad una società tutta “illuminata”, cioè areligiosa o atea, come soluzione del problema sociale e politico» (L. Strauss, Diritto naturale e storia, il Melangolo, Genova 1990, pp. 213-214).

(7 aprile 2023)

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