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15. Recensione a: Leonardo Samonà, Ritrattazioni della metafisica. La ripresa conflittuale di una via ai principi, ETS, Pisa, 2014, pp. 216. (Enrico Guglielminetti)

Ritrattazioni della metafisica. La ripresa conflittuale di una via ai principi: Leonardo SamonàLa tesi di Samonà è che la metafisica sia in se stessa ritrattazione: «La metafisica ha il suo inizio nel possesso dei principi. Ed è chiamata, in ultima analisi, a oltrepassare, a ritrattare questo possesso. Essa configura la filosofia come ritrattazione dei principi» (p. 9). Ne consegue che le critiche contemporanee della metafisica, da Kant a Wittgenstein, costituiscono a loro volta «più la ripresa della ritrattazione che è propria della metafisica che non il rigetto della metafisica» (p. 10): sono, insomma, ritrattazioni della ritrattazione. La natura di ritrattazione propria della metafisica dice però altresì qualcosa di essenziale sulla natura del vero, che «non garantisce nel modo desiderato, non risparmia al pensiero un cammino e un distacco, “traccia la via” che lo “costringe” a cercare ciò che già possiede e a fare ingresso in un’imprevista e faticosa distanza da esso» (p. 9). In quanto permette, se non addirittura sollecita questa distanza, il vero si rivela però come costitutivamente “non invidioso”, mentre la metafisica prende sempre di più «l’aspetto di un tentativo di superamento della violenza» (p. 195). Tale aspetto si ritrova già in Aristotele, la cui dimostrazione per confutazione del principio di non contraddizione nel libro Γ della Metafisica opera un «passaggio decisivo», consistente nella «rinuncia a escludere la posizione contraria, cioè ad appoggiarsi al principio, a considerarlo come appartenente alla propria posizione e non a quella dell’altro» (p. 209). La forza dell’argomentazione aristotelica si esprime innanzitutto mostrando come «i contendenti siano nella stessa posizione rispetto al principio» (ibid.). In questo modo il principio non è appropriato dalla metafisica, con un gesto che sarebbe appunto violento, ma – con peculiare «circolarità» – viene assunto «in quanto “altro”, in quanto cioè imprescindibile rispetto alla posizione che se ne sente emancipata e allo stesso tempo distinto rispetto alla posizione che lo enuncia nel ruolo di indimostrabile. Il principio discrimina solo nella misura in cui instaura l’eguaglianza rispetto a sé delle posizioni opposte» (p. 212). «L’argomento aristotelico non fa a meno dell’eguaglianza dei contendenti e in questo senso fornisce un punto d’appoggio per la ripresa hegeliana» (p. 213), in quanto il principio è lasciato governare «non a partire dalla vittoria su un avversario, ma a partire dalla sua potenza di inclusione degli antagonisti» (p. 214).
Da un lato dunque l’intoglibile tratto «apollineo» della filosofia, che «discende dal suo legame non oscurabile con i principi» e dal suo «accesso all’ambito delle cose divine» (p. 16); dall’altro – e allo stesso tempo – un «rivolgimento dello sguardo», tramite cui «fa ingresso nell’orizzonte della filosofia ciò da cui essa è in fuga» (p. 19), l’estrema indigenza della condizione umana e dell’ente mosso in generale. Questa «conversione dello sguardo» (ibid.) assegna alla filosofia una «nuova meta», che «esige una ritrattazione del gesto filosofico inaugurale», nel senso appunto di «“convertire” lo sguardo verso ciò che dapprima essa fugge come insicuro e letale, verso ciò che dapprima esclude come inferiore o elimina come insignificante» (p. 20). Non si tratta più solo della libertà come «inclusione nel perfetto stare a sé della realtà eterna», la quale «non ha bisogno di altro ed è nello stato di perfezione o di “salvezza”» (p. 19), ma – con una ritrattazione dello stesso concetto di salvezza, ora non più esclusivo – della «possibilità di risanare una frattura, ovvero di muoversi in un orizzonte di “salvezza”» (p. 20). Si tratta insomma, in Platone e Aristotele, della «ritrattazione del proprio slancio verso le cose eterne, la quale però scaturisce proprio da questo stesso riferimento» (p. 23). In questo modo, dopo avere condannato le “bugie dei poeti”, che vorrebbero trattenere il pensiero umano nella sfera della mera finitezza, la filosofia si ritrova ora «più vicina alla poesia» (p. 27). Se, come dice Montale, «tendono alla chiarità le cose oscure», il tendere alla chiarità da parte della filosofia «opera consapevolmente un distacco dalla chiarità stessa, e questo comportamento scorge a sua volta un diverso senso della chiarità», perché «solo se l’essere nel vero è compatibile con il tendere ad esso, la filosofia diventa un’attività possibile per l’uomo» (p. 27).
«Proprio scavando dentro il solco della ritrattazione greca, la filosofia del mondo cristiano-moderno si è spinta ben oltre nell’opera di rammemorazione del transeunte e dell’inquietudine esistenziale dell’uomo […]. Il suo carattere di conversione dello sguardo si è accentuato […] e ha portato nel tempo a una crisi sempre più profonda dell’identificazione, radicata nel mondo antico, del vero e del divino con la posizione di comando e di domino» (pp. 23-24). In questo modo, «la filosofia dà un orientamento nuovo al proprio compito rispetto al primato greco della theoria. Cresce all’interno del pensiero un dissidio con cui esso deve fare i conti; e una distanza un tempo ignota viene a proporsi incessantemente nell’intreccio tra theoria e ricerca, tra “filosofia” e “filosofare”» (p. 29). Nella storia della filosofia «appare una compromissione sempre più forte del pensiero con il negativo» (p. 34), cresce un’«irrequietezza» (p. 35), che si radicalizza fino a diventare una «guerra nel pensiero, la guerra del pensiero contro se stesso» (p. 110). La filosofia conserva però complessivamente la propria «struttura antinomica di approssimazione e allontanamento» (p. 24), la propria struttura di ritrattazione, mentre – proprio addentrandosi più risolutamente in una «terra difficultatis» (p. 34) – sempre più si scopre come la possibilità di una scelta per i principi, cioè come la possibilità di «accogliere “liberamente” ciò a cui è vincolata. In questo senso essa non è né la mera esperienza di adesione ai principi, così come non è la mera emancipazione da essi», ma è piuttosto quella disciplina che, facendo «ritorno al necessario», ri-trattandolo, osa forzare il significato dogmatico del necessario, «fino a scoprirvi in qualche modo incluso l’essere altrimenti» (p. 35), con un’«apertura del necessario» (ibidem) che suona come un «congedo da un dio “violento”» (p. 36).
I capitoli centrali del libro (pp. 39-180) sono dedicati alle ritrattazioni moderne della ritrattazione della metafisica, con speciale riferimento a Kant, Wittgenstein, Adorno, Cartesio, Husserl, Heidegger, Gadamer ed Hegel.
Nella «ritrattazione kantiana della costituzione metafisica della filosofia» (p. 44) ciò che viene messo in questione è il “progresso metafisico”: «L’accesso pratico si rivela la vera fonte della disposizione naturale alla metafisica», mentre la metafisica come presunta scienza teoretica finisce col mettere a repentaglio «la possibilità della ragione di un effettivo accesso, che si rivela di natura pratica, alle verità soprasensibili» (p. 48). La ritrattazione consiste qui «nella difesa di un possesso del senso contro il tentativo della tradizione metafisica di raggiungerlo mediante l’oltrepassamento della condizione imperfetta del sapere» (p. 51).
La filosofia analitica (che costituisce essa stessa una ri-trattazione) eredita dalla metafisica classica «il desiderio di ordine», ma «lo separa drasticamente dal desiderio di “trascendenza” […], rigettando perfino la naturalità del nesso tra i due desideri» (p. 56). Non interrogandosi circa la «genesi» del proprio desiderio di ordine, la filosofia analitica mostra però un «difetto di radicalità» (p. 60): essa non fa entrare il negativo nell’essere, come Aristotele e Platone avevano iniziato a fare (e come Cartesio, Heidegger ed Hegel faranno con ancora maggiore radicalità), ma si limita a sostituire la fuga metafisica verso la stabilità del divino con una fuga verso la stabilità della forma logica: «L’evasione in un altro mondo, nel regno bene ordinato ma alla fine fittizio del soprasensibile, di cui è accusata la metafisica, persiste, in modo residuale ma non più riducibile, nella ridescrizione analitica di questo mondo, quando essa sia intimamente guidata dal proposito di correggerne la vaghezza e la lontananza dall’ideale di un ordine rigorosamente razionale» (ibid.).
Più recentemente, la forma logica è stata liberalizzata «fino a includervi moderate porzioni di realtà metafisica» (p. 94), il che induce a riflettere sugli «aspetti di effettiva novità, con cui si confronta una “metafisica analitica”. E cioè: quanto più la filosofia analitica si scopre contrassegnata da una sua specifica vocazione metafisica, sia pure profondamente trasformata, tanto più essa entra in un conflitto difficile ma forse vitale con il suo modello epistemico» (p. 59).
Più radicale è la posizione di Wittgenstein: la sua ritrattazione colpisce «l’“aureola” con cui proprio il procedimento analitico circonda il pensiero, a causa della sua “sublimazione” […] della forma logica del mondo» (p. 81). Il procedimento analitico continua in modo ossessivo «nell’evasione metafisica» (p. 82). La filosofia è invece, per Wittgenstein, «l’inesausto ripresentarsi dell’inquietudine profonda nei confronti del riposo cercato dal pensiero nel procedimento scientifico e metafisico» (p. 88), perché «questa liberazione spezzerebbe il mondo» (p. 90). Wittgenstein «combatte contro un ordine puro che rigetta il mondo così come è e lo domina» (p. 95), trovando la soluzione «nella familiarità custodita dal gioco linguistico in contrapposizione alla “purezza cristallina” del significato ideale» (p. 92): in questa familiarità, che suscita la meraviglia, «la filosofia attinge il suo riposo; non cerca più altrove, fa spazio a ciò che già c’è» (96). «La filosofia diventa la battaglia per riportarsi là dove si è» (p. 101), presso le forme di vita. In questo modo però – non troppo diversamente in fondo da quanto accade nella dialettica negativa adorniana (cfr. pp. 110-111) – «la filosofia è gettata nel tormento, essa è destinata a restare un comportamento conflittuale» (p. 103), che lavora ad autosopprimersi.
Nella sua ripetizione della metafisica, Heidegger segue bensì Nietzsche nell’individuare il movente segreto della metafisica nello “spirito di vendetta”, nell’abbassamento della finitezza e nella correlativa sopraelevazione di ideali assoluti e sovratemporali, ma poi attrae la stessa «redenzione nietzscheana nello spazio aporetico dello spirito di vendetta» (p. 121): «Decisivo» – per la metafisica – è dunque che l’ente vero resti assolutamente separato dall’ente non vero» (p. 127). La metafisica «ricopre così la differenza che aveva dischiuso nella domanda, ricadendo nell’antagonismo», che «si annida non tanto nel destino rovinoso dello spirito di vendetta, quanto, e più inestricabilmente, nello sforzo di liberazione dalla vendetta» (p. 128). «La ripetizione fenomenologico-ermeneutica tenta invece l’approfondimento della fenditura quale differenza cui non si può rinunciare» (p. 134), il che presuppone che «il sofista si muova rispetto al principio all’interno della stessa posizione nella quale si trova il filosofo» (p. 133). Presuppone, in altri termini, la dischiusura dell’essere come polemos, «estraneo alla guerra umana per la vittoria», specialmente alla guerra del filosofo per la vittoria contro il sofista (p. 135).
Per Heidegger, la filosofia del soggetto, e la sua prosecuzione nell’idealismo rientrano appieno nel percorso della metafisica come sopraelevazione della volontà. E tuttavia – nota Samonà – «dietro l’emancipazione del soggetto moderno si avverte un accrescimento della pretesa di salvezza del diverso» (p. 141). «La coscienza moderna cerca di mettere in salvo la propria precarietà» (si vedano le belle pagine su Cartesio, pp. 141-149), ma «la salvezza finisce però per entrare in contrasto con se stessa se viene intesa di nuovo come liberazione dal (e non del) contingente» (p. 157). Questo pericolo è chiaramente visto da Hegel, la cui dialettica del riconoscimento è caratterizzata dal «rivolgimento verso l’escluso»: in questo modo, «l’identità dell’autocoscienza viene ridefinita alla luce del riconoscimento, cioè dell’“esser altro”. Qui la critica del principio dispotico è l’unica possibile introduzione alla filosofia» (p. 157). «Hegel punta all’uguaglianza degli opposti, Heidegger a una riscoperta della contesa racchiusa nell’essere e mai sviata dalla guerra degli uomini per la sopraffazione dell’avversario. Queste due strade si mostrano entrambe determinanti per la comprensione dell’oltrepassamento metafisico» (p. 158).
Le due letture, quella hegeliana e quella heideggeriana, «convergono profondamente nel tentativo rinnovato di riportare il negativo nel grembo dell’essere», «anche se con esiti tra loro radicalmente diversi» (p. 160). Entrambe muovono da una «comune critica al trascendentale moderno» (ibid.). Questo, nella sua figura kantiana, «si distingue dalla tradizione per il carattere sintetico conferito all’unità, la quale fonda il conoscere superando l’opposizione sostanziale di soggettivo e oggettivo» (p. 163). Il trascendentale però, secondo i suoi critici, promette (o evoca) l’unità ma non la mantiene (cfr. p. 168), sicché, in ultima istanza, «l’istanza sintetica del trascendentale viene […] avocata a sé dalla dialettica» (p. 171): «L’“altro” è il punto di riferimento critico che mette in crisi la purezza dell’apriori» (p. 172).
Per Heidegger, viceversa, «la finitezza del pensiero è la vera radice del trascendentale» (p. 175), e «la dialettica hegeliana si può riassumere nella fatale sostituzione della finitezza e del suo intimo dissidio, sul quale poggia la peculiare originarietà dell’unità trascendentale kantiana, con un conflitto tra opposti che già si fonda sul predominio di un soggetto “assoluto”» (p. 174). Dal punto di vista hegeliano, a sua volta, la posizione di Heidegger può apparire come «l’estremo rifugio di un pensiero ostinatamente arroccato nel procedere astratto dell’intelletto», che – differentemente dal riconoscimento – non compie l’estrema «rinuncia a un ultimo tratto gerarchico dell’opposizione» (p. 180).

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