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153. Recensione a: Adriano Fabris, Etica del mangiare. Cibo e relazione, ETS, Pisa 2019, pp. 103. (Andrea Allegra)

Nel suo testo del 2019 Etica del mangiare Adriano Fabris mette in evidenza l’esigenza di contrastare tutti quegli approcci con i quali ci relazioniamo, o meglio, con i quali non ci relazioniamo – bene – con il cibo. L’obiettivo che si propone Fabris è quello di affermare che la relazione con il cibo è una relazione etica, e che, in quanto tale, non accetta l’affermazione assoluta di uno dei termini della relazione, bensì vuole soltanto il legame tra i termini chiamati in gioco, nel rispetto della loro diversità e della loro natura. Con questo testo, Fabris scomunica ogni forma di predominio sull’altro, che si attua, in questo caso, quando abbiamo a che fare con il cibo: sia nei termini di un rapporto individuale con il cibo che nei termini della relazione, o meglio, della cattiva relazione che l’industria ha costruito con il cibo, e, ancor prima, con le forme di vita che vengono viste come “cose” e successivamente trasformate in alimento.
L’affermazione di Fabris è un’affermazione etica; come racconta il titolo del suo libro, propone un’etica del mangiare; ma un’etica del mangiare serve anche per chiamare in causa le altre etiche applicate: l’etica animale, l’etica dell’ambiente, ecc., che si occupano di aspetti assolutamente connessi con quelli trattati dall’etica del mangiare.
La proposta di Fabris sorge nella nostra contemporaneità, per risolvere un problema evidente della contemporaneità: la “cosalizzazione” dell’altro, che in questo caso è il cibo. Nella nostra società la dimensione religiosa, con i precetti che impone, non fa più presa sulle singole menti. La proposta di Fabris vuole, invece, cercare di riuscire laddove la religione non riesce più. Non credo che la posizione di Fabris possa/debba intendersi come sostitutiva di quella religiosa, bensì credo che debba intendersi come ausiliaria di essa. La riflessione di Fabris vuole mettere l’uomo nella condizione di pensare se stesso non come una monade, non come il padrone del mondo – Fabris per esemplificare questa posizione parla metaforicamente della bulimia e dell’anoressia, due modi di approcciarsi al cibo e al mondo che rappresentano la patologia della relazione –; Fabris vuole che chi legge si renda conto che la relazione per esser tale non deve mai essere unilaterale, e cioè non si deve mai sbilanciare né dal lato del soggetto né dal lato dell’oggetto; anzi, una relazione per esser tale, per esser etica deve escludere da sé stessa proprio i termini “soggetto” e “oggetto”, perché la relazione è l’attuazione del rispetto della diversità, che non pone in evidenza un soggetto contrapposto ad un oggetto.
Il bulimico e l’anoressico, l’abbiamo già detto, sono soggetti presi in considerazione per mettere in evidenza il fatto che la loro relazione con il cibo è patologica; a queste due figure importa solo di sé, e il loro intento è quello, per il primo, di inglobare il mondo e, per il secondo, di allontanarlo, di fuggire da esso. Sono due figure nichilistiche, che rifiutano ogni tipo di relazione.
Possiamo dire che queste due figure sembra che esasperino i soggetti che costituiscono la nostra società, il mondo di oggi. Ma, purtroppo, non è così: queste due figure rappresentano esattamente la realtà in cui viviamo, anche se, a volte, non ce ne rendiamo conto.
Per attuare un rapporto etico, nessuna forma di violenza deve essere tollerata. Affinché l’uomo possa comprendere la realtà in cui vive e se stesso, deve entrare in contatto con essa e con tutte le analisi che su di essa sono state avanzate. È questa realtà che viene colta da Fabris, grazie anche all’aiuto delle altre etiche già citate. Scrive Fabris, gettando lo sguardo sulla nostra realtà e sul modo in cui si realizza, in essa, la relazione con il cibo a livello globale: «Nel mondo contemporaneo, […] il cibo non viene raccolto, non viene preso da ciò che spontaneamente offre la natura, ma è qualcosa di prodotto. Questa produzione, poi, non è compiuta secondo le forme, ad esempio, di un’agricoltura che per la coltivazione si affida alla forza umana, magari ampliata con l’uso di mezzi tecnici […] o con lo sfruttamento di altre forze più o meno naturali […]. Tale produzione invece è resa possibile dal ricorso a tecnologie specifiche, mediante l’uso di apparati che sono in grado di agire con una certa autonomia […]. Oppure essa si realizza attraverso forme artificiali di produzione» (pp. 64-65) e, possiamo domandarci, cosa succede in questo caso? «Pensiamo all’utilizzo fin troppo massiccio di concimi chimici […]. Pensiamo all’impegno di sementi geneticamente modificate, affinché possano meglio resistere a parassiti e malattie» (p. 65); il problema, in questo caso, non è solo nostro, per la nostra salute, ma è anche un problema etico: «Si tratta di processi nei quali il cibo […] viene trattato come un qualsiasi altro prodotto industriale. […] In tal modo il cibo, da risorsa, si trasforma in una merce» (p. 65). Dicevamo che questo sistema che opera attraverso procedure proprie delle catene di montaggio, fa sorgere problemi che intaccano anche la nostra salute: «Il periodico e reiterato diffondersi di epidemie legate ai processi di produzione alimentare – dall’influenza aviaria all’epidemia da Escherichia coli» (p. 67).
Il nostro rapporto con il cibo è comunque un rapporto che vede la distruzione dell’altro, in modo necessario. Non ci possiamo fare niente, perché per sopravvivere dobbiamo mangiare. Di conseguenza, il problema non riguarda il non incorporare l’altro, bensì riguarda il come attuare la relazione con l’altro. Prendere coscienza dell’altro come essere vivente è sicuramente il primo passo da fare, affinché possa nascere il rispetto per la diversità e il compimento di una relazione che tenga conto dell’altro e che non lo veda come un oggetto: questo è il compimento della relazione etica, che può sorgere solo quando l’uomo prende coscienza di essere l’unico essere che può attuare l’etica, solo quando l’uomo diventa cosciente di essere l’unico essere responsabile, e che, quindi, deve avere cura del mondo. Scrive, infatti, Fabris: «Solo l’essere umano può configurarsi come un essere responsabile: non le cose, non gli altri esseri viventi, non gli animali» (p. 99). Quella dell’uomo è, e deve essere «la responsabilità per l’equilibrio, più precisamente, ciò che qui s’annuncia come suo specifico compito etico» (p. 99).
Cosa cogliamo grazie all’etica del mangiare? Diciamolo con le parole di Fabris: «Ciò che esprime simbolicamente il cibo non è il meccanismo di produzione a cui è funzionale, non è una specifica cultura o un determinato luogo, ma la nostra dipendenza da qualcosa d’altro. Esprime il fatto che abbiamo dei bisogni. Esprime il fatto che, avendo bisogni, siamo limitati e che, per soddisfare i nostri bisogni, dobbiamo porci dei limiti. Il cibo, insomma, è simbolo delle relazioni che ci coinvolgono» (pp. 99-100). Il ristoratore, secondo Fabris «dovrebbe imparare a darci, preparando il suo piatto: il senso di tutte le relazioni in cui siamo coinvolti e, insieme a esse, il senso del nostro limite. Questo sarebbe il valore aggiunto, impagabile, della sua cucina» (p. 100). Proprio alla fine della sua trattazione, Fabris presenta un decalogo per un’etica del mangiare: indicazioni di carattere normativo dei temi trattati all’interno del pamphlet.

(5 luglio 2023)

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