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159. Recensione a: Theodor W. Adorno, Problemi di filosofia morale, a cura di Th. Schröder, trad. it. di E. Zanelli, ETS, Pisa 2022, pp. 208. (Lorenzo Biagini)

Dopo Introduzione alla dialettica (a cura di Christoph Ziermann, 2020), ETS rende disponibile per il pubblico italiano anche Problemi di filosofia morale, corso tenuto da Adorno nel semestre estivo del 1963, immediatamente dopo al celebre Terminologia filosofica apparso già da tempo in Italia (a cura di Stefano Petrucciani, Einaudi 2007). La pubblicazione di queste lezioni è di grande valore, perché permette di illuminare il “dietro le quinte” del pensiero di Adorno in una fase cruciale del suo percorso, in cui si avviava ad esporre la propria dialettica in forma sistematica – per quanto problematica sia in lui l’idea di sistema. Questi Problemi di filosofia morale costituiscono un’importante tappa della riflessione adorniana, in cui il filosofo francofortese, riprendendo temi che si rifanno direttamente alla Dialettica dell’illuminismo e ai Minima moralia, li approfondisce ampiamente anticipando molto di quanto si ritroverà nella terza parte di Dialettica negativa, specialmente nei capitoli “La libertà. Per la metacritica della ragion pratica” e “Le meditazioni sulla metafisica”.
Ci si trova quindi di fronte ad un pensiero in fieri e, non da ultimo, è merito di queste lezioni mostrare come la relazione e il confronto con studenti e studentesse fosse un momento cruciale del suo sviluppo. Trattandosi di un filosofo che ha fatto dell’oscurità e della contrazione espressiva la propria cifra linguistica, è inoltre piuttosto sorprendente trovarsi di fronte ad un linguaggio per così dire decompresso e ad un’esposizione piana, in cui le difficoltà di comprensione sono dovute più agli argomenti esposti che alla loro costruzione espressiva. In altre parole, nelle proprie lezioni Adorno si mostra con un volto speculare a quello che emerge dai suoi libri, cioè come un filosofo della chiarezza.
D’altro canto, la pubblicazione di questi corsi pone di fronte ad un nodo teorico di primaria importanza, che investe la loro stessa legittimità teoretica. Infatti, come Schröder ben evidenzia nella “Nota del curatore”, «nel discorso vivente di queste lezioni non tutti i pensieri giungono alla loro conclusione, non tutto è “interpretato correttamente” e quindi non tutto è da accogliere nel canone dell’interpretazione» (p. 188). Per di più, in Skoteinos, ultimo dei Tre studi su Hegel composto proprio in questo periodo, Adorno sostiene con forza l’inadeguatezza della forma lezione al contenuto dialettico, perché essa, in quanto “film del pensiero”, costituirebbe una cattiva mimesi della dinamicità di quest’ultimo: non riflettendo appieno sulla propria forma, essa non raggiungerebbe quell’oggettività espositiva che la “cosa stessa” richiede, rischiando così di falsificarne l’articolazione dialettica. Si tratta di capire, quindi, se queste lezioni possano avere non solo un innegabile valore documentario, ma anche un rilievo propriamente teoretico. Ritengo che la risposta sia affermativa. Quasi in una palinodia di quanto sostenuto in Skoteinos, in questo corso è infatti Adorno stesso ad esprimersi a favore della lezione: «se ancora ci atteniamo a questa forma, se effettivamente teniamo ancora lezioni, ciò ha senso solo se in esse diciamo cose che non si possono trovare allo stesso modo nelle esposizioni stampate, soprattutto nei cosiddetti testi maggiori della filosofia» (p. 31). Credo che quello che non si può trovare nelle esposizioni stampate – e ciò vale anche per quelle di Adorno stesso – sia anzitutto una maggiore insistenza micrologica, cioè un’interpretazione chiara, minuziosa e dettagliata dei testi, ma anche e soprattutto l’implicito che l’interpretazione filosofica si plasma in un dialogo concreto: l’esperienza spirituale non è semplicemente affare privato di chi legge, ma anzitutto una forma di rapporto intersoggettivo. La pubblicazione delle lezioni è, dunque, anche un modo per rivendicare questa dimensione dell’esperienza – a ben vedere già un’indicazione morale e politica.
Il corso si articola in diciassette lezioni, che disegnano un percorso quasi circolare, in cui si ritorna al punto di partenza dopo aver compiuto un’esperienza concettuale in grado di illuminarlo e sostanziarlo. Nelle prime, infatti, Adorno prende le mosse dalla celebre massima dei Minima moralia secondo la quale «non si dà vera vita nella falsa» (p. 7), per riflettere quindi sulla possibilità della filosofia morale oggi, nonché sul rapporto tra teoria e prassi. La sua tesi è che, data l’attuale strutturazione dei rapporti sociali (la vita falsa), ogni tentativo di una prassi immediatamente rivolta ad un bene positivo, in cui consisterebbe la vita giusta, si capovolge immancabilmente nel male, cioè nell’oppressione dei singoli. A ciò va aggiunto che la prassi irriflessa, che si esprime nella domanda impaziente «sì, ma quindi cosa dovremmo fare?» (p. 10), esercita una vera e propria tirannia sulla teoresi, perché revoca l’autonomia della riflessione per assegnarle in maniera eteronoma limiti e legittimazione. Conseguentemente, dato lo strapotere della totalità sociale nei confronti degli individui, la moralità pare essersi “rifugiata” nel momento teoretico a dispetto di quello pratico: la teoresi diventa così una forma di resistenza, in cui, paradossalmente, sopravvive anche l’«a-teorico» (p. 14), cioè quell’elemento “altro”, non concettuale ed irrazionale che rende possibile la prassi in quanto distinta dalla teoria.
Adorno mette quindi al centro del corso Kant, vero e proprio Doppelgänger del filosofo francofortese. Infatti, «la filosofia morale kantiana è in realtà la filosofia morale par excellence, la filosofia morale in termini assoluti» (p. 111) proprio nella misura in cui esprime coerentemente l’antinomia tra interesse dell’intero e del singolo senza «sforzarsi di armonizzarla» (p. 153). Va al di là dei propositi di questa recensione sondare la legittimità dell’interpretazione adorniana ripercorrendola nel dettaglio, ma bisogna sottolineare come essa si fondi su alcuni snodi teorici fondamentali. Anzitutto, Kant appare come il filosofo più limpidamente antinomico, e le lezioni consistono in un continuo ribaltamento dialettico dei concetti, in una magistrale dimostrazione del loro dipanarsi contraddittorio. Protagonista indiscussa di questo movimento è la ragione, di cui si ripercorrono varie forme, teoretiche e pratiche, senza mai perderne di vista l’unità fondamentale. La ragione è anzitutto «una facoltà produttiva, una sorta di attività» (p. 121), con la conseguenza che, in quanto forma originaria della spontaneità, essa arriva a coincidere con la volontà. Secondo Adorno, ciò motiva tanto l’unità intrinseca di teoresi e prassi quanto il prevalere dell’aspetto pratico su quello teoretico.
Il problema morale fondamentale è quindi in Kant quello dell’autonomia, cioè della libertà del volere come capacità della ragione di produrre da sé le proprie norme. Conformemente a ciò, Adorno si confronta costantemente col nesso costituito da causalità, libertà e legge, mostrando come la congiunzione di queste ultime rappresenti il nucleo di ogni possibile emancipazione, sino «alla paradossale costruzione di una causalità fondata sulla libertà» (p. 60). Questo momento, che si esprime nell’imperativo categorico, è tuttavia anche quello in cui la ragione si rovescia nell’eteronomia, e la produzione spontanea nella datità categoriale (cfr. pp. 80-85). Infatti, in quanto dominio della natura interna ed esterna (cfr. p. 111), la legge morale si aliena rispetto al proprio (s)oggetto e si trasforma in una cieca causalità naturale di secondo grado (cfr. p. 143). Grazie a Freud (cfr. pp. 145-148), Adorno può inoltre sostenere che dietro questa coazione etica non si nasconde altro che la forza repressiva che la società esercita sugli individui: categorie morali e sociali sono connesse ed intrinsecamente mediate, e nel rapporto tra libertà e legge morale si scorge il nesso funzionale della società e il principio dello scambio (cfr. pp. 124, 130-131). Ciò non toglie, tuttavia, che la filosofia kantiana «non si limita a ripetere ciò che accade nella realtà sociale, ma possiede la tendenza a esercitare una critica nei confronti della società esistente e a porre di fronte ad essa un’altra immagine del possibile – un’immagine senza immagini» (p. 160). Il suo rigorismo astratto, infatti, lascia indeterminato il contenuto dell’azione morale e in ciò «il momento del non-identico trova la sua espressione» (p. 120): così facendo la ragion pura riesce a preservare il momento “a-teorico” della prassi.
Attraverso l’analisi delle antinomie kantiane, allora, emerge lentamente la società come terreno decisivo per la possibilità stessa della vita morale. Tuttavia, la totalità sociale è organizzata in modo tale che qualsiasi forma di etica, sia essa quella “privata” della convinzione o quella “pubblica” della responsabilità, si dimostra incapace di garantire questa possibilità (cfr. pp. 167-176), tanto che «[l]’interrogativo di fronte a cui si trova la filosofia morale oggi è come rapportarsi di fronte a questo dilemma» (p. 176). Dinanzi a questa impasse, Adorno offre però un’indicazione: l’agire morale è anzitutto la resistenza critica alla “vita falsa”, senza però pretendere che questa resistenza sia immediatamente la vita buona (cfr. pp. 178-180). Nella “Nota all’edizione italiana”, Zanelli sottolinea come siano qui implicati due movimenti complementari: da un lato «il processo di autoriflessione e autocritica della ragione, che sottintende in ogni caso il suo riconoscimento in quanto mediazione inaggirabile del pensiero»; dall’altro «il decentramento del soggetto, che muove da una riflessione sul suo essere condizionato e sull’oggettiva impotenza da cui è caratterizzato, e si traduce nell’indicazione dell’“umiltà” come ipotetica virtù all’altezza dei tempi» (p. 198). È allora in questa pratica di resistenza anzitutto riflessiva che teoresi e prassi raggiungono il proprio punto di indifferenza, congiungendo l’interrogativo morale con quello circa l’organizzazione del mondo: poiché «la critica del mondo amministrato costituisce il presupposto dell’etica», «la questione della vita giusta sarebbe la questione della politica giusta, se questa rientrasse, oggi, nell’ambito di ciò che può essere tradotto in realtà» (p. 186).
Nondimeno, queste parole suonano straordinariamente ambigue, anche alla luce del tono generale delle ultime lezioni: il “se” che lega vita e politica giuste e la loro realizzabilità concreta si presta tanto ad una lettura parenetica quanto ad una venata di pessimismo. Anche la malinconica indicazione dell’umiltà come «virtù cardinale» (p. 179), che ci tratterrebbe dall’«affermare-sé-stessi-come-positività dietro cui, in realtà, si nasconde solo il principio dell’autoconservazione» (p. 179), finisce per riecheggiare la noluntas di schopenhaueriana memoria (cfr. p. 109). In un certo senso, Adorno pare adombrare una posizione quasi gnostica, perché se il passaggio ad una diversa organizzazione del mondo non è garantito, allora la possibilità che quest’ultimo sia l’inferno (cfr. pp. 77, 157, 160) rimane sempre tremendamente concreta. Per dipanare queste ambiguità bisognerebbe riflettere a fondo sulle implicazioni dell’approccio melancolico alla morale (la “triste scienza” dei Minima moralia), ma ciò andrebbe oltre lo scopo della presente recensione. Si può però indicare una diversa prospettiva, ottenuta leggendo “contropelo” queste lezioni e ricollegandosi all’interpretazione di Kant.
La spontaneità, «reazione attiva e immediata in determinate situazioni» (p. 14), è la fonte della resistenza e della vera prassi perché essa coincide, in fin dei conti, con l’«appercezione originaria, cioè [la] forza puramente produttrice» della ragione (p. 140). L’appercezione è ciò che permette allo «spirito, per quanto originatosi all’interno di una connessione naturale, [di] sporgersi un minimo oltre tale connessione» (p. 107). Secondo Adorno, quest’esperienza di continuità e frattura tra natura e spirito «è in realtà ciò che Kant voleva esprimere con questa idea di libertà nel mezzo della natura» (p. 108). La libertà così intesa rimanda ad un «nucleo esperienziale» (p. 107) ben preciso: «nella nostra immaginazione possiamo collegare gli elementi della natura, di ciò che è, che sono stati da noi immaginati», disponendoli in connessioni «in cui ciò che si origina non assomiglia a ciò da cui ha avuto origine» (p. 108). Qui Adorno intende l’immaginazione precisamente come momento psicologico-empirico, quella fantasia che permette di separarci dalla natura ed è quindi tutt’una con la spontaneità. Allora, la libertà sarebbe soprattutto la separazione dalla cieca naturalità immediata, compresa la “seconda natura” della società, mediante una fantasia produttiva. Di fronte al finale ambiguo di queste lezioni, il corso contiene quindi anche un’indicazione chiara: la vita vera sarebbe quella adeguata ad un concetto di ragione dialettica che si sviluppa a partire da una fantasia produttiva. Grazie a quest’ultima, inoltre, «possiamo rappresentarci ciò che non è ancora» (p. 108), quindi anche una società che non assomiglia a quella in cui abbiamo avuto origine e organizzata in modo tale da consentire una politica giusta. E se certamente la fantasia non possiede la virtù dell’umiltà, compito dell’etica è allora concepire una fantasia che sia senza violenza e che faccia nascere una ragione effettivamente emancipata.

(11 dicembre 2023)

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