Marcello Barison definisce Concomitante il principio fondamentale che caratterizza tutto il pensiero di Heidegger. E qui sorge l’esigenza di chiarire, sin da subito, il significato del concetto in questione in quanto esso mai compare nelle opere del filosofo. Come ogni domanda problematica in ambito filosofico richiede, bisogna partire da una più urgente interrogazione che sta a fondamento di tutte le successive domande e tentativi di risposta, bisogna innanzitutto e sempre rispondere alla domanda che cos’è filosofia? Secondo l’autore, filosofia è «l’irrevocabile accadere di qualcosa. […] la filosofia è l’esistenza di qualcosa che incomincia a parlare solo quando ci si risolve ad intenderlo come un discorso senza soggetto» (p. 13), non si tratta mai della pura e sola forma di una soggettività, e dunque, in questo caso, strettamente di Heidegger e di ciò che ha voluto dire a noi con il suo filosofare.
Emblematica, stando a questa prospettiva, risulta l’epigrafe stessa del libro che consacra gli argomenti trattati al confronto con il pensiero heideggeriano, sicché l’approccio sviluppato è quello di un dialogo: non si scrive su Heidegger, si dialoga con il suo pensiero. E in ciò si realizza, forse, il più alto auspicio del filosofo di Friburgo, il quale a effige delle proprie opere ci teneva che fosse scritto: Wege – nicht Werke, itinerari – non opere.
Confrontarsi con gli itinerari heideggeriani vuol dire aver ben chiara la profonda consapevolezza teoretica che ha accompagnato e forgiato il pensiero di Heidegger fino alla fine. Confrontarsi con gli itinerari heideggeriani e inoltrarsi nelle contrade, nei viottoli, nei sentieri, nelle radure di un pensare che ha segnato in modo indelebile e forte il Novecento fino a oggi comporta sempre il contatto con il nuovo, ovvero con quella freschezza del pensiero che emerge ancora oggi dal modo in cui Heidegger ha interpretato i filosofi e ha pensato movendo da essi.
Cosa intende Barison con il concetto di Concomitante? Esso porta a chiarimento «il funzionamento di una struttura che sembra incessantemente operare all’interno di quel discorso senza soggetto che solo per convenzione chiamiamo ‘la filosofia heideggeriana’. Di più: il Concomitante sembra essere la modalità fondamentale attraverso la quale quella filosofia pensa. Nel momento in cui esiste nel pensiero, essa verrebbe a coincidere con la necessità di articolarsi secondo quella struttura che qui chiamiamo il Concomitante» (p. 14). L’autore afferma che quanto di vero o falso possa esser detto sul Concomitante non dipende dalle conclusioni alle quali è possibile giungere una volta confrontato questo concetto con un’interpretazione del pensiero di Heidegger che si pone come “la più corretta” possibile.
E poiché il principio che l’autore va cercando si schiude a partire dal confronto di Heidegger con il mondo greco, nel primo capitolo Tecnica e sapere. Informazione l’autore parte dalla seguente formulazione: «Heidegger e i greci, Heidegger e i tragici» (p. 47), laddove la e secondo l’ontologia della congiunzione (p. 39) indica il doppio movimento di un pensiero che ha presa sia sul passato che sul futuro: «la filosofia di Heidegger agisce sul pensiero greco in quanto passato e così, unitamente, lo modifica per il futuro, determinando ciò che questo passato, ossia il passato della filosofia greca, è nell’unica forma in cui possa essere», ovvero la forma di un passato che rispetto alla stessa filosofia che la pone, quella di Heidegger per l’appunto, appartiene al futuro. L’interpretazione dei Greci elaborata da Heidegger ha segnato così profondamente la filosofia del Novecento che anche coloro che hanno filosofato dopo di lui a partire dai Greci portano comunque i segni del potere istituente del pensiero heideggeriano (cfr. p. 28) che manifesta la capacità di agire sul passato e sul futuro: sul passato perché «l’orizzonte di azione della filosofia di Heidegger si estende talmente da agire sul pensiero greco e modificarlo» (p. 29), e sul futuro poiché la filosofia heideggeriana «dalla sua postazione storica […] rivela la possibilità di agire oltre se stessa, estendendo il suo raggio d’azione al pensiero affermatosi dopo di essa» (p. 29): la “sempiterna attualità del filosofico” consiste nel saper contenere tutti i tempi e tutte le loro propensioni (pp. 35-36).
La formula Heidegger e i Greci va declinata nel modo più specifico Heidegger e i tragici, tenendo sempre presente che Barison, nella propria indagine, si apre alla possibilità che possa emergere qualcosa che «è di Heidegger e dei greci solo nella misura in cui è della filosofia e concerne pertanto la forma del mondo ancor oggi inevitabilmente in atto» (p. 47). E dunque: il confronto che Heidegger sviluppa coi tragici prende la forma del Concomitante? Il punto di partenza per tentare una risposta è il rimando a Eschilo e al rapporto tra techne e Wissen che Heidegger crea a partire dalla sua traduzione speculativa del Prometeo incatenato (Aeschl. Pr., 514): «essa, scrive Heidegger, riguarda “das Wesen des Wissen”, “l’essenza del sapere”. Queste le parole della tragedia […]: techne d’anankes asthenestera makro, che Heidegger (HGA XIV, 109) traduce con: “Wissen aber ist weit unkräftiger den Notwendigkeit”, “Ma il sapere è molto più debole della necessità”» (p. 51). Heidegger traduce techne con Wissen (sapere), e Barison, che già nelle precedenti pagine aveva fatto riferimento all’informatica come manifestazione/dimensione predominante della tecnica contemporanea, vi ritorna definendola «una tecnica che opera sul sapere» (p. 52) e dunque la forma del nostro tempo in cui tecnica e sapere coincidono. Si è di fronte, per conseguenza, all’identità tra tecnica e sapere.
Tale interpretazione non può non avere delle forti implicazioni teoretiche e anche storiche, in quanto conduce a pensare che «ciò che oggi chiamiamo informatica, né più né meno che una tecnica del sapere, abbia essenzialmente a che fare con quel che, fin dalle origini della civiltà occidentale, viene nominato nel termine “techne”» (p. 53). Al di là delle considerazioni di carattere filologico, che non sono rilevanti ai fini di dell’argomento che Barison intende portare avanti, ci interessa, semmai, tentare di comprendere in che modo l’interpretazione heideggeriana è in grado di porsi rispetto a noi. La traduzione trasformatrice di Heidegger formula un pensiero profondo e più attuale che mai – il presente che viviamo è il tempo in cui «la tecnica del sapere è, in quanto informatica, la potenza sovrana che condiziona e determina il reale» (p. 55), difatti se qualcosa è definibile concreta, oggettiva e condivisibile essa deve avere esistenza, un proprio ‘spazio’ nella dimensione del Web. Solo ciò conferisce al qualcosa in questione esistenza piena e inequivocabile.
Ora, bisogna considerare che la potenza posta da Eschilo al v. 514 del Prometeo incatenato, di cui sopra, è subordinata ad Ananke, a Necessità, e ciò vuol dire in primo luogo che, benché il sapere sia una tecnica il cui fine è quello di incrementare viepiù la propria potenza per dominare il reale – e qui è ravvisabile il suo carattere teleologico –, «in quanto potenza umana, tuttavia, tale potenza non è la potenza suprema. Esiste infatti una potenza più alta e potente, una sovrapotenza necessaria e invalicabile posta dal destino, contro la quale il sapere quale potenza umana è destinato inevitabilmente a infrangersi. Scontrandosi contro tale sovrapotenza, il sapere esercita la propria potenza e incessantemente fallisce. Esso, si badi bene, non fallisce perché inadeguato o fallace: fallire di contro alla sovrapotenza del destino è qualcosa che appartiene all’essenza del sapere» (pp. 56-57).
Il trionfo di Necessità, pertanto, non dipende dal riconoscimento o meno della sua sovrapotenza poiché questa si dà e si pone in modo incontrovertibile. Quale implicazione diretta nella realtà del nostro tempo ha questa interpretazione? Quel sapere che pretende di im-porsi come illimitato e capace di incrementare una potenza infallibile risulta essere, al contrario, la forma più degradata di sapere poiché non riconosce il limite che lo sovrasta, ossia la sovrana potenza (o sovrapotenza, come la definisce Barison) di Ananke; e non riconoscendola – qui l’aspetto più problematico – non è in grado di dialogare con essa. La conseguenza di un simile approccio non può che essere disastrosa; infatti, «chi s’illuda di saper dar luogo a una potenza illimitata, e di poterla dispiegare senza limite, sarà semplicemente annichilito dalla sovrapotenza di cui ignora o disconosce l’esistenza» (p. 57). Va ribadito che, secondo l’autore, l’attuale pretesa di illimitata potenza invocata dalla tecnica ha un connotato preciso: l’informatica. È molto significativo che il nesso Heidegger-Eschilo ed Eschilo-Heidegger stia a fondamento di una riflessione così urgente nel nostro tempo.
Heidegger trova nel filosofo e poeta eleusino un “antico sapere” che oltre a porre la potenza della tecnica subordina questa alla sovrapotenza di Necessità. In che modo si esercita e in cosa consiste tale sovrapotenza? È possibile affermare che essa svolge una funzione certamente regolativa della potenza umana in quanto coincide con il “nascondimento dell’essere” (aufsteht für) che insorge per l’ostinazione del sapere che l’uomo incrementa come propria potenza. Für significa «similmente a sich einsetzen für, […] levarsi attivamente in difesa di qualcosa, prendere posizione, insorgere a favore di qualcosa» (p. 58). Ne segue che il sapere umano, nel grado più alto della sua apoteosi attuale, è definito dal suo scontrarsi continuamente con ciò che, pur essendo dell’essente, rimane tuttavia alla e della potenza inaccessibile. L’Inaccessibile estrinseca la propria sovrapotenza nel porre il limite invalicabile dalla potenza della tecnica. Va precisato che l’Inaccessibile può essere inteso anche nel senso di ciò che insorge – l’autore rimanda all’esempio della scultura – affinché il sapere umano possa determinarsi entro il proprio limite, e dunque in senso positivo. Se Eschilo ci dice che la limitazione del sapere umano è una necessità (destino), Barison domanda euristicamente «e perché mai, dovremmo chiederci, non può essere altrimenti?» (p. 59).
La suddetta domanda sorge perché se il nascondimento dell’essente, ovvero il fatto che qualcosa dello stesso rimane perennemente indisponibile al sapere umano in termini di tecnica di conoscenza, è una necessità che s’impone in modo incontrovertibile, ogni tecnica ha davanti a sé un destino fallimentare, dal momento che «definisce ciò che il sapere, indipendentemente dalla sua perfezione tecnica, non può sapere, e così facendo lo rimette a sé stesso, lo determina nel suo limite. A imporre al sapere umano il suo limite necessario e invalicabile è la costitutiva inaccessibilità di ciò che le cose sono nel loro nucleo più profondo e immanifesto. In quest’inaccessibilità inviolabile sta racchiusa l’immane sovrapotenza dell’essente, che pur mostrandosi e, anzi, proprio perché non si mostra, esercita sul manifesto e sulla conoscenza del manifesto la potenza massima e massimamente condizionante» (p. 60).
Il confronto di Heidegger con i tragici, e in particolar modo con Eschilo – Barison dedica ampio spazio anche a Sofocle (cfr. pp. 61 sgg., 108 sgg.) che per ragioni di spazio non è qui preso in esame –, porta alla luce un aspetto del rapporto uomo-tecnica-necessità che nel tempo presente pare aver raggiunto il suo grado più alto nell’ambito del sapere informatico.
Quali conclusioni trarre, dunque, dal confronto tra Heidegger e i tragici per giungere, ancora una volta, a quel noi che attraversa ed emerge in ogni pagina del libro? Certamente si tratta di un confronto che, avendo inizio nel segno della tecnica, conduce all’inevitabile conflitto e interdipendenza tra potenza umana e sovrapotenza dell’Inaccessibile in merito al quale Barison ravvisa «una strana struttura bipolare» (p. 61), e qui torna il Concomitante: «come se due movimenti opposti e concomitanti determinassero insieme quel che è, ponendo che tutto ciò che è si compone unitamente di due istanze contemporanee il cui movimento convergendo diverge» (p. 61).
L’esistenza dell’operare della tecnica, nelle sue dimensioni epistemica e meramente pratica, è posta sempre in forza della sua connessione con il nascondimento. Da ciò è possibile rilevare una “strana bipolarità”: l’operare della tecnica è posto dal nascondimento e, allo stesso tempo, in conflitto con esso. E se la tecnica non nega il nascondimento, «volendo soltanto trarlo nel manifesto, esiste in Concomitanza all’immanifesto».
Ora, il breve percorso esplorativo del testo in questione che qui è stato tracciato si apre a una serie di domande cogenti che riguardano il mondo che abitiamo, il mondo del sapiens che si appresta a scomparire tuttavia non in modo totale e improvviso, il mondo in cui, modificando l’affermazione di Barison (andando certamente incontro a significative implicazioni teoretiche), “l’essere stesso è divenuto impianto e l’impianto è divenuto essere stesso” (cfr. p. 316), formula indicante quella metafisica della violenza che guida il cieco operare meramente tecnico; cieco perché non più in grado di scorgere quel limite posto dall’Immanifesto. Qui tutta la differenza tra Eschilo e noi, tra quel modo di pensare la necessità di techne, che nella sua formulazione tragica doveva ancora intraprendere la lotta titanica contro la sovrapotenza (con la quale ha una relazione bipolare), e l’oggi di Homo sapiens in cui «il porre dell’impianto è universale: il carattere tecnico è epocalmente la modalità universale di tutto ciò che è» (p. 317). Ecco il paradigma in cui oggi viviamo, pensiamo, agiamo; esso è determinato da noi tanto quanto, allo stesso tempo, ci determina, cosicché per l’essere umano del terzo millennio non è più possibile esistere al di fuori e a prescindere da esso. Ma costituisce tutto ciò l’ultima parola, l’epilogo della travagliata parabola di Homo sapiens nel mondo?
(26 marzo 2024)