«Se sono disperato, la cosa non mi riguarda!» è la provocazione di Günther Anders, filosofo tra i più sottovalutati del secolo scorso, che intitola così paradossalmente una sua lunga intervista al giornalista Mathias Greffrath, rilasciata nel 1979. Tuttavia, già per la prima edizione italiana del 1991, sotto la curatela di un interprete attento come Velotti, è stato Opinioni di un eretico il titolo adottato per presentare quest’intervista al lettore italiano, rimarcando così il carattere appunto «eretico» che contraddistingue la figura andersiana. Nella postfazione tedesca di Ketzereien – ovvero, appunto, la raccolta di queste “eresie” andersiane, ancora inedita in italiano – è proprio lo stesso Anders, infatti, a presentarsi come un autore esplicitamente eretico, già solo in senso etimologico, relativamente alla sua scelta di vita controcorrente. Obstinate contra!, il motto latino dal vago sapore anarchico, poteva essere un’altra traduzione papabile, che bene s’addice anche al tono irriverente dell’intervista. Questa ristampa recentissima, che inaugura la collana “Andersiana” appena lanciata da Mimesis – nel solco di una “Anders renaissance” che sembra incominciare a portare frutti – sotto la triplice supervisione delle studiose andersiane Micaela Latini, Vallori Rasini e Natascia Mattucci, riprende inoltre anche l’intervista rilasciata da Anders al saggista tedesco Fritz J. Raddatz, e cioè Brecht konnte mich nicht riechen – letteralmente, “Brecht non mi poteva soffrire” – che ancora Velotti rese in italiano, nel 1986 su «Linea d’Ombra», con Uomini senza mondo. Incontro con Günther Anders. Il testo di quest’ultima intervista, un po’ più breve della prima, è particolarmente interessante e va ad integrare bene l’altra, essendo ad essa successiva di qualche anno – si parla di un articolo di «Die Zeit» datato 22 marzo 1985, a meno di un decennio dalla morte di Anders stesso, che ormai ultranovantenne si spense nel 1992.
Anders, oltre alla «natura eretica» che la stessa Latini ha contribuito a diffondere mediante il suo impegno di studiosa e traduttrice, si contraddistingue anche per un certo tono “profetico” a tratti persino fastidioso, tanto da essergli valso il soprannome de “la Cassandra della filosofia” come, per esempio, ricorda anche il titolo della accuratissima monografia di Alessio Cernicchiaro. Ma anche, e forse innanzitutto, Anders è giustamente stato considerato a lungo un autore “rimosso” dalla critica, come ha più volte sottolineato nei suoi studi Pier Paolo Portinaro – che, probabilmente, fu il primo e il più attento a raccogliere in eredità l’interesse che il solo Norberto Bobbio, con l’ausilio di Cases e di Solmi, aveva dimostrato per Anders già negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, spendendosi perché le “opere militanti” di quest’autore pacifista e anti-atomico venissero tradotte per Einaudi. Da allora, dopo la traduzione per il Saggiatore de Die Antiquiertheit des Menschen – che, nel 1963, fu compito di Laura Dallapiccola rendere in italiano con L’uomo è antiquato – e toccando così il punto più alto dell’attenzione italiana per Anders, interi decenni di disinteresse accademico hanno condannato ad un destino, appunto, di “rimozione forzata” la proposta filosofica di quello che sicuramente è uno degli autori più originali del XX secolo. Non fosse altro che per il fatto che, come anche quest’intervista ci ricorda ripercorrendone la vita pressoché per intero, Anders stesso ha effettivamente attraversato quasi in toto il cosiddetto “secolo breve”, nascendo nel 1902 e morendo novant’anni esatti dopo. La sua filosofia, che potremmo anche definire una vera e propria “autobiografia filosofica”, è infatti un sismografo sensibilissimo nel registrare i tragici avvenimenti del ’900: in primis, la “grande guerra”, di cui Anders ricorda lo shock dei corpi mutilati, ma poi anche l’hitlerismo e l’avvento della “società totalitaria” nazista in Germania, e la conseguente fuga di Anders stesso, in quanto ebreo, dapprima a Parigi e poi esule negli USA. Quindi l’esperienza dell’esilio, ma anche quella del “sopravvissuto” e il peso di chi – al contrario ad esempio del cugino Benjamin – fu risparmiato. Lo spettro di Auschwitz, che anche Anders visita nel 1966, diventa nella riflessione dell’autore uno dei due “luoghi-simbolo” dell’«umanità obsoleta» descritta dal filosofo nei saggi successivi alla sua cosiddetta Kehre del 1945: anno appunto del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki – il vero luogo dell’orrore per il filosofo, che infatti distingue la propria produzione in una filosofia dell’«uomo-senza-mondo» prima di Hiroshima, e nella proposta “escatologico-negativa” di un «mondo-senza-uomo» post-Hiroshima, ma anche “post-umano” nel senso dell’avvento di un’«era atomica» che sia «tempo finale» (Endzeit) dell’umanità su questa terra, ovvero l’anticamera per la sua “auto-estinzione” necessaria.
Da sempre figlia dell’urgenza del momento ed originata dall’esperienza “scioccante” dell’urto con la contingenza, la filosofia di Anders si delinea come quella sorta di autobiografia che dicevamo sopra – oppure, come anche lo stesso Anders la chiama, come un «giornalismo metafisico» che ha il suo punto focale nell’evento storico e nell’esistenza vissuta. Per usare il lessico dell’amico Lukács, si può anche dire che la filosofia andersiana si manifesti sempre come una «riflessione del quotidiano» vissuta in prima persona, come effettivamente dimostra la grande quantità di contributi pubblicati da Anders sotto forma di diaristica, lettere aperte, fogli militanti redatti in prima persona, memoir e sue corrispondenze personali, poesie, racconti, aneddotica, interviste con interlocutori veri o immaginari che siano, etc., persino un romanzo che, in un certo senso, è autobiografico anch’esso, raccontando l’esperienza di un uomo “senza mondo” spossessato della propria vita da un regime fascistoide. Per il filosofo, dunque, è la vita dell’uomo che dev’essere al centro della riflessione filosofica, in tutte le sfaccettature che la rendono obsoleta davanti alla macchina e, perciò, ancora umana. Anders prende a prestito da Goethe anche un altro termine per descrivere questa sua particolarissima proposta, cioè definisce il proprio filosofare un «occasionalismo» o «filosofia d’occasione», proprio per ribadirne il carattere fondamentalmente contingente e la centralità del “fare esperienza” dell’essere umano, in ogni sua dimensione accidentale e soprattutto nella concretezza della «situazione» esistenziale.
Nelle due interviste accorpate in questa nuova edizione di Opinioni di un eretico, pertanto, il pretesto autobiografico non è assolutamente fine a sé stesso, ma si tratta di una operazione con delle precise finalità filosofiche. Anders mostra chiaramente l’ispirazione socratica della sua dialettica, ne utilizza spesso gli artifici retorici per spiazzare l’interlocutore e per articolare il suo ragionamento. Il filosofo ripercorre l’intera sua esperienza di vita, a partire da quando ancora si chiamava Stern e si trovò costretto a diventare un «altro» (anders) per sbarcare il lunario, firmando più articoli possibile per la gazzetta sulla quale lavorava, pagato evidentemente a cottimo: un cognome sicuramente meno semitico, che destava meno sospetto nel clima nazista dell’epoca, ma anche profeticamente destinato a fare di Günther quell’essere “ostinatamente contrario” e “altro da sé ” che, dopo gli anni dell’esilio, si rifiuterà di ritornare in Germania come prima, rigettando al mittente – l’amico Ernst Bloch – anche la proposta di una cattedra universitaria. Anders, che quando era ancora Stern si laureò con Husserl, ma anche contro Husserl, dopo l’esilio statunitense non era più interessato a fare carriera accademica come negli anni giovanili, quando tentò di addottorarsi in musicologia a Francoforte – tentativo che, racconta lui, fallì per il giudizio negativo di Adorno sul suo lavoro “troppo heideggeriano”. Maestro di Anders, infatti, fu soprattutto Heidegger, per il quale nel corso dell’intervista emerge un’asprezza difficile da eguagliare: Anders critica Heidegger spesso arrivando a sminuire il peso che ebbe nella sua formazione, oppure addirittura ridicolizzandone la portata filosofica in un modo che, tra le righe, non può non fare trasparire comunque una considerazione per il pensiero heideggeriano – al di là di quel “gergo iniziatico” di cui spesso Anders si fece burla, anche in altri suoi scritti critici. Non sono da meno le testimonianze relative alla filosofia di Marcuse, del quale Anders è addirittura ospite per un certo periodo, nella sua casa in California. Infine, sono sicuramente toccanti i ricordi della prima moglie, Arendt, per la quale Anders ha parole di grande stima, e del cugino Walter Benjamin.
Il carattere di “guastafeste” di Anders si fa manifesto nel suo racconto degli anni successivi all’esilio, ovvero gli anni della sua militanza “anti-atomica”. Sistematosi a Vienna, città dove resterà fino alla morte e che ancora oggi è sede dell’archivio del suo Nachlass, il filosofo inizia una febbrile e pressoché totalizzante attività politica per la denuclearizzazione, contro il militarismo e a favore dei movimenti non-violenti – salvo poi, verso la fine degli anni ’80, sorprendere tutti schierandosi, fuori tempo massimo, a favore della lotta armata, paradossalmente concepita come strumento violento ma giustificato dalla violenza atomica dei governi, come in una sorta di «legittima difesa». Assieme alla persona di Robert Jungk, ad esempio, è impegnato in primissima linea nel movimento anti-nucleare, partecipando a numerosissimi meeting e manifestazioni, ed è persino giurato del “tribunale Russell” per la pace nel Vietnam, nel 1967. In questo senso, esperienze di vita e riflessione filosofica si trovano ancora una volta profondamente intrecciate, in Anders, e vedono nella pubblicazione della variegata produzione letteraria andersiana di quegli anni il loro sbocco naturale. Quest’intervista, che di quella produzione è in fondo anche una silloge, rappresenta la migliore introduzione alla vita e alle opere di quest’autore, che ha fatto dell’«antiquatezza» (Antiquiertheit) la propria firma personale.
(1° luglio 2024)