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175. Recensione a: Enrico Palma, De Scriptura. Dolore e salvezza in Proust, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 270. (Sarah Dierna)

Se la scrittura è, come scrive Enrico Palma nel suo libro, «dimora dell’umano», quella dell’autore è allora una casa ospitale, accogliente e confortante; uno spazio nel quale raccogliersi, attingere a una comprensione più profonda e autentica del proprio tempo e del proprio dolore – temi ai quali sono dedicate pagine assai belle per stile e contenuto –; un luogo silenzioso nel quale la scrittura di questo volume come del capolavoro di Proust si è compiuta; un’abitazione dalla quale si va via con una serenità ritrovata, quasi «assolti» (p. 17). Ed è proprio a partire da dolore e salvezza in Proust che Palma traccia i primi passi in un percorso teoretico che camminando «con Proust, su Proust e oltre Proust» individua un percorso «intimamente filosofico, alla ricerca dei concetti e delle verità che le opere letterarie […] nascondono dentro di sé in attesa di un reagente teoretico» (p. 14).
De Scriptura è questo reagente teoretico. Un lavoro ermeneutico e filosofico che ripercorre per intero la Recherche districandone i nodi manifesti ed evidenziandone gli aspetti che ai lettori possono essere parsi secondari, in un andirivieni tra i sette romanzi che non trascurando le voci della critica proustiana si aggiunge a esse con originalità. Forse la lettura del romanzo potrebbe agevolare anche la comprensione del libro ma in realtà non è necessario perché Palma riesce a rendere i personaggi di cui parla quasi familiari anche a chi li incontra per la prima volta e soprattutto l’intento dell’autore è un altro e consiste nell’astrarre da Bergotte, da Albertine, da Charlus, da Swann e dalle altre figure che man mano la memoria del Narratore recupera nel presente, gli universali alla base di qualsiasi vita, di cui tali personaggi sono solo un’individuazione. D’altronde le vicende del Narratore non sono poi così distanti dalle nostre e dietro i tornanti della memoria del protagonista c’è una trama che si avvicina molto a quella che ciascuno di noi ha vissuto perché i temi dell’amore e della gelosia, della gioia e della sofferenza, del desiderio e della nostalgia sono gli analitici esistenziali di qualsiasi tempo vissuto e quindi attraverso quel Je che è l’io del Narratore che racconta «con coraggio l’immane sofferenza che si prova» si rivela «più segnatamente il nostro destino» (p. 59). Ma per fare emergere dall’opera il nostro destino è fondamentale transitare da quel personaggio che è l’io Narratore, diverso dall’io biografico di Proust. In tal senso Palma ha fatto propria la lezione di Sein und Zeit selezionando così, e poi articolando, alcuni degli esistenziali proustiani ma la peculiarità di questi elementi che definiscono il Dasein proustiano è di potere essere ricavati soltanto, o perlopiù, dal Narratore in quanto «l’argomento del romanzo gli inerisce essenzialmente: l’essere di cui gli importa, il tempo che via via perde, è il suo» (p. 115).
Il significato profondo di questo richiamo a se stessi da cui soltanto l’Opera è potuta essere e diventare ciò che è, viene spiegato da Palma con il richiamo alla possibilità più propria dell’umano, l’essere-alla-morte da cui scaturisce l’«essere-per-la-scrittura». «Come la morte è mia, irrelativa e insuperabile, allo stesso modo l’unico romanzo che si possa scrivere, inerendo al mio tempo perduto che io solamente posso ritrovare, è via via il mio» (p. 143). Questa possibilità così ultima che annulla tutte le altre la si può accogliere, superare e vincere solo mediante la parola scritta.
Con la Recherche Proust ha compreso la verità autentica della formula ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato; la parola che all’inizio l’io-narratore si aspettava dalle donne amate, a cominciare dal bacio della mamma: «L’attesa spasmodica di un segno che ci sollevi, il sussurro con cui si proferisce all’altro di’ una parola ed io sarò salvato, una preghiera a un simulacro generato dalla parte eterea e al contempo colposa dei nostri desideri, sono le insensatezze del cuore a cui però non si riesce a rinunciare poiché irriducibilmente umane e infitte nella nostra consistenza intrisa di finitudine» (p. 23). La parola che rende degni di partecipare alla mensa, la parola che salva, il Proust di Palma la ritrova nella scrittura. Nella forma apollinea che riscatta il dionisiaco dei giorni, degli anni e della vita: «L’unico modo per risparmiare alla vita l’inevitabile perdita che le è connaturata, o per meglio dire per salvare questa vita-a-perdere, come una presenza oscura che la inghiotte senza che ne sia minimamente consapevole, è dare a questo tempo una forma diversa da quella mondana, sociale, amorosa e infaustamente speranzosa che sogliamo attribuirle per darle un senso. Bisogna dunque captare lo spirituale che c’è nella vita e che resta nascosto, saperlo individuare non appena la memoria involontaria ce lo rivela e affidarlo al raggio dell’arte, che lo sublima e lo innalza alle plaghe dello spirito»; per dirla in altro modo, bisogna dare a questo tempo una forma diversa da quella inautentica; bisogna far sì che questo albero che noi siamo, «indurito dai dolori e dagli anni» trasformi «ciò di cui si nutre in linfa» (p. 142). La linfa non è il frutto di un albero ma la sostanza che ne permette lo sviluppo, la crescita e la sopravvivenza. Allo stesso modo credo vada intesa la scrittura: non come una meta bensì un itinerario che consente di rendere meno fangoso il selciato del nostro «essere-nel-mondo» e del nostro «vivere-nel-tempo» (p. 108). La scrittura, o per meglio dire il De Scriptura, dell’autore è infatti un esercizio di comprensione e rischiaramento di questi due elementi, vale a dire uno sforzo di comprensione del tempo che siamo. Siamo entità fragili, abbiamo conosciuto le intermittenze del cuore, quel connubio di sofferenza-amore che precipita l’innamorato nell’inautenticità del desiderio, della gelosia e dell’attesa dell’oggetto amoroso; la faglia del cuore che schiude all’inconoscibile che l’altro rappresenta e per cui vige una sola regola, «o si accetta tale sconosciuto abituandosi alla sofferenza fino a divenirne saggiamente indifferenti, oppure si soffre della gelosia in quanto disperato tentativo di conquistare l’inespugnabile» (p. 62); siamo bambini che anelano ancora al bacio della buonanotte, angosciati per non averlo ricevuto e quindi lasciati soli nel buio della notte; nella tenebra dell’esistere. Su questo buio e su questa tenebra può però ancora arrivare la luce dell’intelligenza che, aiutata dalla memoria involontaria, può sprigionare una nuova gioia capace di ripercorrere le vicende dolorose di un’intera vita senza più il moto di sofferenza che le aveva trapassate e ricomprenderle nella luce della filosofia; nella luce del concetto che giunge «quando avendo tratto l’ultima stilla di dolore da una certa esperienza, svanito l’incantesimo amoroso diventa possibile, seppure rimestando una ferita che avrebbe dovuto chiudersi già da tempo, penetrare con l’intelligenza laddove prima non era consentito, scoprendo così quanto male abbiamo ricevuto, quante illusioni l’altro ha lasciato che si alimentassero, quanta superficialità sentimentale e pochezza di carattere hanno consentito che soffrissimo inutilmente» (p. 218).
Nel capire tutto questo il narratore diventa artista. L’artista, scrive Palma, capace di rendere oro ciò che tocca; di volgere il male in qualcosa di luccicante, in un metallo prezioso. Proprio tale ruolo da artista eleva l’io del narratore che si addossa i contenuti che la memoria involontaria gli restituisce a io-universale abbracciando in questo modo anche quell’io biografico di Proust e quello dei lettori che si sono lasciati scaldare dalla luce che questa opera letteraria è. L’autore lo scrive chiaramente: «È mia convinzione che l’esito ultimo della riflessione proustiana, anche a prescindere dalla non ovvia considerazione che egli ne fosse o no consapevole, è la scrittura come caratteristica ontologica primaria del Dasein. La scrittura letteraria, l’arte eccelsa per Proust, la sola vera vita che non ricorda soltanto ma che crea, è la tecnica di smaterializzazione del proprio sé in qualcosa di ontologicamente superiore, un percorso attraverso il quale viene compreso ciò che si è vissuto e che altrimenti sarebbe rimasto nel buio dell’ignoranza e quindi totalmente inutile» (pp. 255-256).
Alla luce di Proust e della sua opera Palma ha aggiunto la sua mostrando come la letteratura sia Lichtung e la scrittura sia esattamente ciò che l’epigrafe di Benjamin – che apre questo libro, lo accompagna e lo illumina – afferma: onnipotenza sulle cose del mondo. Il libro di Palma è la conferma che la scrittura può essere strumento, luogo, forma della lucidità raggiunta sulle cose del mondo, un getto di luce sul loro accadere. E questo con Proust, su Proust e oltre Proust.

(1° luglio 2024)

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