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181. Recensione a: Luca Crescenzi, L’esploratore e la fine del tempo. Franz Kafka e il ciclo di racconti Un medico di campagna, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2024, pp. 252. (Enrico Palma)

Sostenendosi sulle acquisizioni della critica, questa disamina di Crescenzi sul ciclo di racconti Ein Landarzt si pone all’attenzione di qualunque lettore kafkiano anzitutto per l’impostazione generale dell’analisi e dell’interpretazione, essendo infatti opinione dell’autore che un progetto ermeneutico fondato su una delle opere più note dello scrittore praghese possa costruirsi a partire da uno sguardo unitario, che intende cioè la raccolta come il frutto di una concezione organica e totale. Un medico di campagna non è il frutto di parti letterari estemporanei, di racconti di diverso genere e natura che sono stati raccolti in modo eclettico da Kafka. O, se è anche questo, l’intenzione kafkiana non può ridursi a una mera giustapposizione. Crescenzi mostra in modo convincente che, sin dagli appunti preparatori, Kafka aveva inteso il ciclo di racconti come qualcosa che si reggesse da sé, integrato e quindi tutt’altro che rapsodico. Sicché andare alla ricerca di un tracciato che trovi internamente le proprie ragioni di plausibilità e cogenza diventa un obiettivo doveroso.
Il libro si dedica a ogni racconto nella sua singolarità, ma senza dimenticare la sua collocazione nello sfondo più ampio, attraverso cui tentare di comprendere le pur ineludibili enigmaticità dell’opera kafkiana, considerando il contesto del ciclo nella sua totalità. Crescenzi delinea questo concetto con chiarezza: «Il fine dell’analisi è unicamente la determinazione del significato della raccolta a partire dal senso del sue singole parti, nel tentativo di restituire l’immagine di un insieme comprensibile pur nella sua costitutiva enigmaticità» (p. 11). Kafka, come ricordato da molti, non si può risolvere. E tale infatti è uno dei principi, persino metodologici, da accettare per procedere a una sua retta e profonda comprensione. Non risolvere, ma spingere l’irrisolvibilità fino a dissolverla, prendendone atto, accettandola e riportandola alla vita turbata e angosciata nel travaglio del suo procedere, nella speranza di una sua rappacificazione.
Tenendo in considerazione un breve ma importante giudizio che Rilke rivolse a Kafka sul Fochista, secondo Crescenzi lo scrittore potrebbe aver iniziato a riflettere sulla necessità di una coerenza interna con cui redigere qualunque sua opera futura. Tra cui, quindi, il Medico di campagna, in cui si trovano alcuni tra i vertici assoluti dell’arte kafkiana e della letteratura novecentesca, i quali avrebbero dovuto strutturarsi su «un’intima coerenza interna che trapela all’esterno come una determinazione logica del suo contenuto poetico» (p. 18). L’intento di Crescenzi, seguendo questa traccia rilkiana recepita seriamente e con profitto da Kafka, è di rinvenire una logica nell’estetica del ciclo, con un sottile quanto raro esercizio critico che in alcuni tratti diventa interpretazione filosofica, solidamente documentata e sostenuta filologicamente, come nel caso delle interessanti sovrapposizioni con il Da un polo all’altro dell’esploratore Sven Hedin, utile per la genesi di molti testi della raccolta. Un esercizio di divinazione del concetto, ripercorrendo per certi versi la lezione di immanenza che era già stata di uno dei più fini lettori di Kafka, il Walter Benjamin del Doktoratsarbeit sui romantici o del formidabile saggio su Goethe. Esercizio che Crescenzi illustra in questo modo: «Non si tratta di risalire, al di là di essi, ai riposti pensieri di Kafka, bensì di individuare e interpretare gli elementi costitutivi della riflessione, complessa ma coerente, che attraversa, quasi invisibile, tutti i racconti» (p. 22). Non un andare al di là verso l’intenzione letteraria di Kafka, ma cogliere da quale visione d’insieme, da quale concezione, se vogliamo, estetico-metafisica della realtà e della vita, siano sorti i racconti di questo ciclo.
Una dinamica critica che, sempre ricordando Benjamin, procede anche per motivi, il primo dei quali, secondo Crescenzi, è quello dello spettro, riscontrabile in alcune possibili fonti kafkiane, da Strindberg a Hebbel, passando per le ormai indubbie, per non dire ovvie, suggestioni ebraiche. Diversamente però dalla funzione e dall’utilizzo che gli spettri hanno avuto nella letteratura precedente, quelli kafkiani si fanno gravidi di una densità concettuale ineludibile, giacché divengono manifestazione di uno statuto la cui principale marca ontologica è quella della vaghezza, di una condizione di medietà che esibisce tutto il carattere paradossale della realtà e della vita. «La loro persuasività dipende proprio dal non avere una storia da raccontare o un futuro da indicare, bensì un inafferrabile paradosso da esibire. Per questo», aggiunge Crescenzi, «possono diventare per un attimo protagonisti di una narrativa della contraddizione e dell’indeterminatezza» (p. 47), in cui ogni tipo di ragionamento logico viene sospeso e la razionalità messa tra parentesi, come lo diviene la vita per via di queste figure ibride, sfuggenti e confuse.
Quello dello spettro diviene quindi il simbolo della condizione del vivente che tenta di comprendere invischiato in una dimensione onirica, nella quale anche le coordinate temporali hanno subito una deformazione, anzi un deleterio annullamento. Come nel racconto eponimo della raccolta, il protagonista può essere paragonato a un essere di tal fatta, una creatura ondivaga e priva di direzione intrappolata in un eterno presente. «Lo spettro che vaga all’infinito è, in altri termini, l’unico legittimo abitante della modernità e la sua storia è un passato che non può passare perché non è altro che il disvelamento di un immutabile stato delle cose» (pp. 82-83). Lo spettro, in quanto motivo kafkiano, sarebbe un’immagine – o una maschera nel lessico interpretativo di Crescenzi – di questa metafisica dello smarrimento, del caos, annunciante l’annullamento del tempo e della logica. Anche in ciò si coglie una delle più notevoli conseguenze dell’arte kafkiana, la dissoluzione del senso dall’interno, che al momento della resa letteraria risulta paradossale ma che dal punto di vista ontologico appare invece come assolutamente fondata.
Se l’appropriazione tra esserci ed essere, per ricordare Heidegger, se nell’essenza del Bezug e del suo eventuarsi giacciono l’enigma e l’assurdo, allora la letteratura kafkiana può dirsi una mimetica della realtà. Quella di Kafka sarebbe allora una descrizione dell’esistenza, una precisa osservazione da un punto di vista esterno che altro non è che l’insieme dei suoi stessi racconti. Il lettore, l’umano, può anche comprendere tutto questo, ma secondo Crescenzi resta sotto scacco, vagando nel nulla: «Ma una volta acquisita la coscienza non c’è comunque alcuna salvezza possibile: nell’immobilità del tempo l’individuo resta costretto nella vita apparente di uno spirito che vaga nel vuoto» (p. 83). È uno scacco anche alla riflessione, poiché «appare evidente che il fine della narrazione kafkiana è rappresentare proprio lo stallo della riflessione, il fallimento dinanzi al tentativo di mettere ordine fra i fenomeni della realtà che, uno dopo l’altro, si presentano alla sua attenzione» (p. 91). Questo è il destino degli spettri di Kafka, nonché della struttura logica della realtà, ma non è detto che sia anche quello del suo lettore, il quale, dal proprio canto, può tentare di affrancarsi da questa logica incrollabile traendo tutte le conseguenze positive in vista di una redenzione esistenziale come affrancamento dall’ansia del rinvenimento del senso in assoluto.
L’erosione della riflessione e della logica si riverbera anche nel senso della storia, concetto dirimente secondo Crescenzi del racconto-capolavoro Durante la costruzione della muraglia cinese. Com’è noto, Un messaggio dell’imperatore è stato estrapolato dalla Muraglia cinese e inserito in un Medico di campagna, come in un gioco, è il caso di dire, di scatole cinesi. Nel lontano impero cinese, e nelle vicende narrate, ogni notizia, fatto, evento è confuso nei suoi riferimenti temporali. Secondo Crescenzi è anzi il senso stesso della storia ad annullarsi, in un caos spaziotemporale che coinvolge l’esistente in quanto tale, l’intero popolo, in cui, dice Kafka, regna un’incertezza universale. Le impossibilità di fondo che incontra il messaggero, le miriadi di ostacoli frapposti tra sé e il destinatario che attende sognante alla finestra di sera, sono una rappresentazione della soglia, di un ordine apparente sovrapposto a un caos basale. Una soglia che è costantemente il proprio riproporsi, una facies dell’impossibile.
L’ontologia dell’esistenza e della storia potrebbe scampare a questa dannazione della soglia, a questo disordine acconciato a narrazione dell’improbabile, la cui figura più esaustiva è l’assoluta inconsistenza dell’imperatore, nonché la sua stessa impotenza, dall’alto della sua posizione e della solennità dell’attimo del proprio morire, di far recapitare un messaggio nel suo stesso impero. Se, infatti, il messaggio arrivasse, ogni cosa assumerebbe una giustezza, la logica ne uscirebbe nuovamente affermata e il caos riportato all’ordine. Ma il messaggio non giunge. Nell’acuta formulazione di Crescenzi: «Se il suo messaggio potesse giungere basterebbe, da solo, a spezzare il disordine del tempo, proprio perché lo ha attraversato. Si costituirebbe dunque un ordine opposto al confuso stato del reale e potrebbe, da esso, rifondarsi un universo di senso. Ma questo non è possibile: perché le ragioni di quello stato risiedono fuori dal tempo della storia e ne condizionano l’invalicabile assenza di forma. Così il tempo si costituisce nella coscienza individuale come tempo-soglia, tempo di un’attesa che è però anch’essa illusoria giacché non può fare altro che arrendersi alla pura e semplice assenza dell’evento» (p. 119). In altre parole, potremmo dire, non avviene in Kafka quell’appropriazione tra la scaturigine del senso e la sua eventuale ricezione, da cui conseguono lo smarrimento e la colpa di muoversi disorientati in questo mondo fatto di soglie insormontabili e che sempre si ripropongono, in una scala mobile infinita sulla quale si crede di salire ma che in realtà procede in senso opposto alla marcia.
Come si fa evidente anche nel racconto Il più vicino villaggio, in cui è persino la temporalità biologica dell’umano a essere protagonista, il paradosso della cronologia si fa concretezza di un’impossibilità, il ricordo di una vita appiattito nel momento della sua fine, che non permette il suo stesso attraversamento, persino a ritroso. Il ricordo, il tempo divenuto stabile nella fissazione in memoria, «svela che il movimento nel tempo non è altro che una maschera illusoria gettata sopra un tutto omogeneo e indifferenziato che non offre punti di riferimento – e men che mai di partenza e di arrivo – a chi decida di percorrerlo» (p. 125).
La meta è irraggiungibile, il procedere è illusorio, il tempo è sospeso. L’esistenza si aggira dunque in una realtà cosiffatta. E si tratta di una realtà nella quale è scomparso il benché minimo barlume di una speranza di salvezza, come quello a cui aspira, prima di essere giustiziato, lo Josef K. del Processo, o che intravvede l’uomo di campagna dopo aver atteso una vita intera davanti alla porta della legge.
Tuttavia, Crescenzi individua la possibilità di una salvezza in almeno due alternative. Da una parte c’è la trasfigurazione letteraria del sé, come attesta lo stesso Kafka in una celebre lettera a Felice in cui dice di consistere esclusivamente di sola letteratura, «l’unico modo possibile per raggiungere il desiderio di un altro io, di una diversa, più profonda identità; l’identità che altrimenti resta racchiusa nel cuore, come un’opzione inattuabile» (p. 141). E dall’altra c’è lo studio meticoloso, pedissequo e analitico di ciò che è consentito conoscere nell’attesa di penetrare nella verità e nel senso, anche se questi ultimi sono totalmente indisponibili, una fatica alla fine della quale viene dato in dono di guardare il Glanz, il bagliore della legge, «una sorta di premio della vista concesso – si noti – allo studioso che la vista ha ormai perduto quasi del tutto, qualcosa di simile a un’apoteosi del vedere come metodo della ricerca di ogni, sia pure infinitesimale, verità» (p. 151).
Concludendo il libro, Crescenzi rivendica ancora il potere trasfigurante della letteratura kafkiana, capace di introdurre il lettore nella dimensione estetica da lui creata per spaesarlo, per farlo accedere a un luogo per lui assolutamente ignoto, sganciato dalle pastoie della realtà, dai ceppi di una logica ferrea, per mostrargli forse l’inconcludenza di ogni logica possibile e un atteggiamento nei confronti della vita più libero, sganciato dalle catene del senso a cui è sempre richiamato. Ma, aggiunge l’autore, «come Odradek, anche il lettore di Kafka farà ritorno, prima o poi, alla realtà che abita, ma il suo viaggio potrebbe non avere fine» (p. 227).

(19 settembre 2024)

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