Il libro di Adriano Prosperi su Machiavelli è un capolavoro della storiografia. Chi scrive è convinto che questo sia uno dei libri più belli scritti sull’argomento. Si tratta di un volume paragonabile, per importanza, ai contributi di Friedrich Meinecke, John G.A. Pocock, Federico Chabod, Carlo Dionisotti, Gennaro Sasso, Quentin Skinner, Maurizio Viroli e Filippo Del Lucchese. Prosperi è consapevole della grandezza del segretario fiorentino – «per trovare una vicenda comparabile a quella del Principe nella cultura europea bisogna arrivare a Marx e al Capitale» (p. 75) – e, per questo, si domanda cosa significhi oggi rileggere Machiavelli, autore di un libro, Il Principe, che è «tra le opere italiane più tradotte al mondo, insieme a Pinocchio» (p. 9). Non è facile accostarsi alla lettura di un classico della filosofia politica che ha subito numerose distorsioni ideologiche: non esiste un Machiavelli, ma molti, e in contraddizione tra loro. Questo autore è stato interpretato, di volta in volta, come un seguace del demonio (Gentillet, Possevino), un celebratore dei valori repubblicani e di libertà (nella cultura anglosassone), il “primo giacobino italiano” (Antonio Gramsci), un “maestro del male” (Leo Strauss), un rappresentante del materialismo aleatorio (Louis Althusser), lo scopritore dell’autonomia della politica dalla morale (Benedetto Croce). Prosperi prescinde da tutte queste etichette poiché è convinto che «la premessa necessaria per leggere Machiavelli è invece rinunciare a categorie e sistemi» (p. 14). L’autore studia la vicenda di Machiavelli attraverso un taglio storico che lo inquadra nel suo tempo. Il primo capitolo ripercorre il confronto dell’autore dei Discorsi con Savonarola, definito «profeta disarmato». Questi fu il primo difensore del paternostro come strumento di governo: «Perché gli Stati de’ veri cristiani si reggono con l’orazione e col ben fare, e non è vero quel che dicano e’ pazzi e cattivi, che lo Stato non si regge co’ paternostri. Questo è detto di tiranni e non di veri principi» (p. 23). Machiavelli aveva ascoltato le prediche di Savonarola e, dalla sua esecuzione avvenuta nel 1498, aveva tratto un’importante lezione: che la «pratica dell’arte dello stato comportava la rottura non solo col cristianesimo ma anche con le regole dell’umanità» (p. 24). Savonarola era nemico dei Medici, avvertiti come dei tiranni: «Dopo la morte di Lorenzo era stato Savonarola a levare alta la bandiera della lotta contro questa minaccia con l’elaborazione del nuovo disegno costituzionale della repubblica fiorentina» (p. 33). Prosperi mostra come Machiavelli, di fronte agli ideali di riforme politiche, si ponesse come un vero e proprio realista politico renitente ad accettare la lezione di Polibio (del quale, probabilmente, era venuto a conoscenza in casa Rucellai): «Difatti la fonte delle Storie di Polibio, libro VI, è seguita puntualmente da Machiavelli sia pure con una importante differenza: per Machiavelli “il cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate e si governano” non riparte da capo se non raramente, perché degenerando e indebolendosi le “repubbliche” diventano preda di stati vicini» (p. 32). Lo storico concorda con lo studioso J.H. Whitfield nel considerare Savonarola e Machiavelli accomunati dal rifiuto dell’assetto politico esistente (cfr. p. 39). Nel testo pregevole di Prosperi non si fa menzione del pensiero politico di Marsilio Ficino che guardava a Cosimo il Vecchio, fondatore del potere mediceo, in una prospettiva platonica: Cosimo era la testimonianza vivente di un potente che si converte alla filosofia. Sarebbe stato appassionante un confronto tra l’idealismo platonico di Ficino ed il crudo realismo politico di Machiavelli. L’autore dedica invece particolare attenzione alla vicenda esistenziale di Machiavelli che avrebbe potuto incorrere nello stesso tragico destino di Pietro Paolo Boscoli, decapitato perché colpevole di aver congiurato contro i Medici, i quali nel frattempo erano rientrati in città con la forza dell’esercito spagnolo (cfr. p. 8).
Un intero capitolo è dedicato alla fortuna del Principe. Le prime letture dal capolavoro machiavelliano si concentrarono a Bologna, dove uno studente abruzzese scrisse del fiorentino in una lunga lettera indirizzata ad Erasmo da Rotterdam (cfr. p. 67). Uno dei primi critici di Machiavelli fu Sepúlveda «che scoprì Machiavelli subito dopo aver incitato Carlo V alla guerra contro i Turchi in una Exhortatio dove se l’era presa violentemente col pacifismo erasmiano. Con la stessa intollerante asprezza denunciò la tesi machiavelliana di un effetto negativo del cristianesimo sul valore militare e l’attaccamento alla grandezza dello Stato. A suo avviso era proprio l’esempio del caso spagnolo a dimostrare che tra la disciplina militare e la religione cristiana c’era una perfetta consonanza» (p. 68). Nel 1537 alcuni politici suggerirono alle cancellerie del sovrano inglese Enrico VIII di servirsi dello scritto machiavelliano per le critiche alla corte romana. L’imperatore Carlo V si fece tradurre nella sua lingua i libri del segretario fiorentino e ne impose la lettura al figlio Filippo. Successivamente si formò una vera e propria isteria di massa contro l’autore del Principe che sancì la separazione di Machiavelli dal machiavellismo. L’ipotesi di Prosperi è che questa psicosi collettiva abbia condotto l’Europa a considerare gli italiani un popolo malvagio, degno seguace delle perfide teorie esposte nell’opera del pensatore toscano: «Quello stereotipo negativo fu calato sull’intero popolo italiano: un popolo corrotto, uso a ricorrere alla violenza e all’astuzia. In un libello pubblicato in inglese nel 1591, l’autore indicò nei personaggi machiavelliani di Romolo e di Numa i due modi italiani di fare politica: se l’uno prende il potere con un assassinio, l’altro lo fa con l’invenzione di una falsa religione. L’odio nei confronti degli italiani negli anni delle missioni segrete dei gesuiti nell’isola e della scomunica di Elisabetta I prese dunque la maschera dell’autore del Principe» (p. 77). Althusius citò Gentillet e gli attribuì il merito di aver confutato le teorie del perfido italiano. Fu Giusto Lipsio uno dei primi a rivalutare il pensiero politico di Machiavelli. Il giurista Alberico Gentili elogiò Machiavelli per aver svelato ai popoli le malefatte della tirannide. «Ma il punto di svolta decisivo si ebbe con la pubblicazione a Londra nel 1656 di Oceana di James Harrington. Fu quello il “momento machiavelliano” della tradizione repubblicana anglosassone su cui ha insistito John G.A. Pocock. Per Harrington erano state illuminanti le analisi machiavelliane dell’assetto del potere nella monarchia francese e in quella turca messe in relazione con l’assetto della proprietà (cap. IV del Principe): e da qui aveva derivato il suo concetto di “bilancia” tra la distribuzione della proprietà fondiaria e la sovrastruttura (superstructure), cioè le istituzioni politiche e giuridiche» (p. 83). Reginald Pole, dal punto di vista di Prosperi, rappresenta l’inizio dell’antimachiavellismo. Tuttavia, Pole, a differenza di Gentillet e Possevino (che non avevano presenti i testi), fu un attento lettore di Machiavelli e comprese immediatamente la complessità del suo pensiero: il segretario fiorentino, secondo il cardinale inglese, era un ateo radicale conscio dell’uso politico della religione. Partendo dall’interpretazione di Pole, Prosperi individua la cifra del pensiero machiavelliano nell’aver contribuito alla separazione del concetto di “religione” dalla “vera religione” (cfr. p. 116). A prescindere dal suo grado di verità, l’autore del Principe considerava la religione un fattore di coesione sociale (cfr. p. 24). Le preziose osservazioni dell’accademico toscano sulla religione nel pensiero politico del fiorentino potrebbero essere accostate agli studi di Carlo Galli riguardanti la presenza della paura nei Discorsi che contengono la teologia politica di Machiavelli: «Si tratta di una teologia politica semplice, caratterizzata dalla semantica del timore (del terrore, dello sbigottimento) e dell’utilizzazione: la religione viene adoperata dai capi politici, nel mondo antico, per “ridurre alle obbedienze civili uno populo ferocissimo”, sfruttando il timore degli dèi e dei giuramenti per rafforzare il timore delle leggi». Insomma, per Galli, Machiavelli considerava la religione un «fondamento della politica nel senso che ne è strumento: la repubblica deve essere mantenuta “religiosa” perché sia “buona e unita”, a prescindere dal fatto che la religione sia vera o falsa – tant’è che anche il cristianesimo viene da Machiavelli valutato e misurato col metro della sua utilità politica a mantenere “unite le repubbliche cristiane”, e viene trovato a ciò disastrosamente deficitario per colpa della corruzione della Chiesa, che ha causato anche la corruzione delle forme politiche su cui ha avuto influenza» (C. Galli, Forme della critica. Saggi di filosofia politica, il Mulino, Bologna 2020, pp. 155-156). L’interpretazione prosperiana di Machiavelli si appoggia sugli studi di Delio Cantimori che focalizzò la sua attenzione sulla «serietà morale» dell’autore del Principe. Cantimori, come spiega il suo illustre allievo, individuava nella religione un ingrediente essenziale della ricetta politica del fiorentino. L’anticlericalismo di Machiavelli derivava dalla serietà con la quale egli ha preso in considerazione la funzione svolta dalla religione: «La rovina è avvenuta – scrive Cantimori, interpretando e parafrasando i testi di Machiavelli – perché son mancate in principi e repubbliche, quella virtù, forza, impeto, senso politico e cognizione delle leggi reali della politica, capacità e senno; ma insieme perché son mancate nelle popolazioni quella serietà e pubblica solidarietà fondate sulla religione che costituiscono la solidità dei principi e delle repubbliche e la sostanza della energia militare vera, quella che agisce per la patria. L’acre sarcasmo del Machiavelli contro gli ecclesiastici, grandi e piccoli, regolari e secolari, è espressione di una sconsolata amarezza particolare fiorentina e se si vuole italiana. […] Preti e frati han tradito non solo la loro funzione specifica di predicare l’evangelo, di attuarne e spirito e precetti, come cristiani (questo tema Machiavelli lo lascia svolgere al altri), ma anche, di conseguenza, alle funzioni di rendere buoni (non solo docili e laboriosi, ma solidali, disciplinati, seri, leali, capaci di devozione e di sacrificio) i popoli» (p. 148). Prosperi cita innumerevoli volte, elencando i più celebri commentatori di Machiavelli, Leo Strauss poiché «per lui l’analisi del rapporto tra saggezza antica e pensiero politico moderno, tra Senofonte e Machiavelli, aveva sullo sfondo la questione della religione» (p. 29). Prosperi ha introdotto nel suo saggio un concetto ermeneutico di notevole complessità. Come ha scritto Giovanni Giorgini, «Strauss osserva che l’opera di Machiavelli è ricca di gravi errori di ogni specie (citazioni errate, inesattezze circa nomi o eventi, omissioni) e, con un autore di tal fatta, è regola prudente muovere dall’assunto che questi errori siano consapevoli e intenzionali. Applica pertanto a Machiavelli la propria “ermeneutica della reticenza”, perché Machiavelli ha scoperto “nuovi modi e ordini” e questa verità può essere rivelata solamente tra persone assennate: Machiavelli usa, così, una veste tradizionale sotto la quale cela un insegnamento sovversivo» (G. Giorgini, Liberalismi eretici, Edizioni Goliardiche, Trieste 1999, p. 48). Prosperi dimostra, nel suo libro, di condividere la metodologia ermeneutica di Strauss: «Il confronto tra Senofonte e Machiavelli proposto da Leo Strauss fu basato sulla premessa opposta a quella dello storicismo di chi leggeva gli umanisti del passato come abitanti di un’isola felice di libertà dell’intellettuale davanti al potere politico. Da quei testi si trattava di ricavare qualcosa di più del livello di superficie, cercando di decifrare il messaggio scritto fra le righe. Fu sulla base di questo principio di metodo che Strauss propose la sua interpretazione di un Machiavelli radicalmente e segretamente anticristiano» (p. 29).
In conclusione, questo formidabile saggio dimostra non solo la competenza storica di Prosperi ma anche la sua finezza ermeneutica che deriva certamente dal magistero di Cantimori e dallo studio di insigni storici del pensiero politico come Leo Strauss, John Pocock e Friedrich Meinecke.
(19 novembre 2024)