Che cos’è la metafisica? Tale quesito, che ha caratterizzato l’impegno teoretico di molti filosofi del Novecento, può apparire oggi del tutto desueto, capace, nel passato come nel presente, di innescare quell’antica idiosincrasia del pensiero che sorge non poche volte quando viene pronunciato il termine metafisica. Se, come ha affermato Armstrong, “Metaphysics is now respectable again” (cfr. D.M. Armstrong, Che cos’è la metafisica. Un profilo sistematico, Carocci, 2016), il libro di Massimo Cacciari, Metafisica concreta (il titolo è un omaggio al progetto filosofico rimasto incompiuto di Pavel Florenskij), contribuisce in maniera decisiva a far sì che ancora oggi sia possibile elaborare nuove risposte alla domanda, saggiarne lo spessore in riferimento al presente, guardare con coraggio i confini che tale interrogativo trasforma e in-forma del continuo: irrefrenabile è la tensione teoretica che guida il filosofo nel complesso tentativo di tracciare un sentiero speculativo che possa essere all’altezza della domanda posta.
L’opera di Cacciari va certamente collocata, e dunque letta, all’interno di un quadro più ampio, ovvero alla luce dell’itinerario speculativo che il filosofo ha tracciato almeno a partire da Dell’inizio (1990), proseguendo con Della cosa ultima (2004) e Labirinto filosofico (2014), ma non solo: pure in Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo (1972) troviamo dibattuta l’idea di scienza che fa sempre riferimento al principio di ragion insufficiente di cui si legge anche in Paradiso e naufragio (2022). Vogliamo riassumere questo itinerario – non senza tener conto del rischio di ridurre in tal modo, certo, lo spessore di uno dei più fecondi e profondi filosofi del presente, ma si confida qui nell’onestà del lettore che certamente saprà considerare che si tratta di una recensione – come segue: la filosofia, nascendo dalla meraviglia, è una diaporetica, un cammino tra aporie. Partiamo, dunque, da una definizione che lo stesso Cacciari ha più volte ribadito in molti suoi scritti, e ci pare opportuno iniziare proprio dall’enunciazione di tale prospettiva perché essa sta a fondamento della risposta che l’autore dà alla domanda posta qui in apertura. Anche la metafisica, dunque, si caratterizza come cammino tra aporie, e in ciò è riflesso il suo carattere sempre transitorio, mai definitivo, necessariamente aperto al nuovo che viene, che si erge da quel magma che è il fermento del sapere umano. Inesauribile, dunque, è il compito della metafisica in merito al paradigma in cui viviamo, ci muoviamo, respiriamo, pensiamo e progettiamo le nostre esistenze.
In una nota a piè di pagina si legge il riferimento all’ontologia della libertà di Pareyson, un rimando che si rivela molto curioso poiché indica l’inizio di un itinerario di ricerca teoreticamente fecondo da cui si fa strada un punto di convergenza tra l’autore e il pensatore di Rapallo a partire da Schelling. Ivi, in nota, leggiamo: “la mancanza di attenzione sul nesso tra una ‘ontologia della libertà’ e la metafisica implicita nella contemporanea scienza della natura è forse il limite maggiore filosofia di Pareyson, che si presenta, io credo, nella sua forma più compiuta in Ontologia della libertà, Torino, 1995. La filosofia della natura dell’idealismo classico, sia in Hegel che in Schelling, avvertiva acutamente la difficoltà e insieme l’urgenza di riferire all’ordine complessivo degli essenti l’idea di libertà – tuttavia, il pensiero contemporaneo ha incautamente ‘decretato’ che proprio la filosofia della natura costituisse il caput mortuum di questi ultimi, grandi sistemi” (p. 267, nota).
L’attenzione a questo nesso a cui l’autore fa riferimento può essere sviluppata a partire da Metafisica concreta e dall’ontologia della libertà di Pareyson intesi come due poli teoretici attorno ai quali costruire un sentiero filosofico che si fa carico delle questioni cogenti del presente e che affronta, quindi, tanto i problemi che riguardano l’esistenza quanto quelli che sorgono indagando l’essente attraverso il dia-lógos tra i saperi, in primis tramite il dialogo tra metafisica e scienza.
Il nucleo teorico che Cacciari vuole sviluppare nella sua trattazione è precisamente il rapporto metafisica-scienza, un’impresa che deve necessariamente passare da Galileo Galilei: il metodo sperimentale da lui inaugurato è a fondamento dello Scientiam facere, di tutto ciò che da esso è sorto e che ancora oggi da esso nasce e si dirama attraverso la progressiva estensione del proprio dominio apparendo, così, agli occhi degli studiosi una “terra sconfinata”. L’interpretazione cacciariana risulta molto originale nel porre lo sguardo galileiano accanto a quello platonico in termini di sì alla vita, sicché l’autore afferma: “Lo sguardo galileiano ha ‘atterrato’ il sole? No; era sguardo platonico anch’esso, un Sì alla vita nel suo significato più originario: ci ha permesso di tendere lo sguardo verso infiniti gli infiniti soli che abitano l’universo e, oltre ancora, all’infinita Luce. […] Le forme determinate per cui l’essente si manifesta resteranno casi, Zufälle, anche per la Legge ‘avvenire’? (sempre avvenire). Quella Gioia è presagibile, ma non potrà mai derivare dalla osservazione” (pp. 297-298).
I rimandi al pensiero di Carlo Diano – una delle fonti più importanti del pensiero di Cacciari, ricordiamolo – sono numerosi. E proprio a partire da Forma ed evento, in cui è posta la distinzione tra evento e caso, bisogna considerare che, mentre il secondo non abita la dimensione del tempo, al concetto di evento possiamo invece riferire l’istante inteso come sola esistenza reale – ora in cui non è il passato né il futuro –, “l’istante, a sua volta, è l’immagine del puro accadere senza che alcun caso accada” (p. 306). La filosofia è chiamata a interrogarsi e ad argomentare sulla questione dell’istante, e quindi del tempo che costituisce un “labirinto”, così lo definisce Cacciari, dato il suo esser complesso quanto il nesso che collega il nostro cervello con il sistema nervoso del corpo intero. L’evidenza che la dóxa attribuisce al divenire fa sì che la realtà del tempo appaia a noi come una prigione, “ma questa prigione non è che il Sé di ciascuno, tutt’uno con la sua identità” (p. 307). Stando così le cose, è possibile che il tempo detenga un’altra “natura” oltre a questa? Rispondere alla domanda in questione vuol dire confrontarsi con chi ha elaborato una teoria del tempo. Difatti si passa anche ad Agostino, che nel libro X delle Confessioni afferma che Dio si rivela alla nostra memoria, anche se ciò non riesce ad aggirare il pericolo della oblivio perché “la memoria non è mai districabile dalla dimenticanza” (p. 309).
Memoria e dimenticanza, due caratteri essenziali per la vita umana senza i quali l’esistenza non potrebbe conoscere il proprio naturale sviluppo; sviluppo che dice la temporalità dell’esserci, il suo essere tempo. Ma quale tempo? Tempo si dice in molti modi, proprio come l’essere di Aristotele, e a partire dai Greci sappiamo la polisemia di questo antico concetto, la sua ricchezza filosofica, il suo spessore esistenziale: “E tuttavia non siamo il tempo del mero fluire, siamo tempo che contiene in sé tutti i tempi, che la vita dotata di logos articola e collega nelle sue distinte dimensioni, ‘salvandolo’ ogni volta dal frantumarsi nel mero dis-correre. Siamo il tempo che la memoria immaginativa collega simultaneamente a eventi presenti o ad attese e presagi, il tempo del Zufall, dell’accadere, anche nella sua repentina imprevedibilità, i cui effetti sono ‘in mano’ soltanto alla creatività auto-generativa di Physis” (p. 325).
Il nostro esser tempo ha delle implicazioni forti sul pensiero che si sviluppa a partire dalle nostre esperienze, sul nostro modo di intendere e vivere la vita, sicché l’esperienza indica sempre qualcosa che ci sfugge poiché irriducibile alle nostre categorie logico-concettuali, poiché non sottostà alla signoria del ragionamento e quindi non è collocabile all’interno del grande bagaglio conoscitivo che l’umano ha, nel corso della storia, sempre di più arricchito. La complessità rimane la cifra essenziale del discorso che tiene conto non solo del lógos, ma pure del rapporto di questo con il páthos. Pertanto, in Cacciari è possibile parlare di un pensiero tragico la cui portata permea e dà forma ai punti più critici del libro, “luoghi” testuali segnati irrimediabilmente dal conflitto dei due modi del pensiero che generano la tensione che costituisce il cuore pulsante del pensiero cacciariano, che per questo mostra in modo chiaro la sua radice tragica, in quanto indica costantemente il rapporto ineludibile tra le due sfere della conoscenza umana. E “in questo senso la nostra esperienza è sempre, come Husserl ha detto, una Fremderfahrung, l’esperienza di qualcosa di spaesante, di ‘altro’, rispetto alla cosa che ci sembra di sentire e percepire, e che pure non è nulla di nascosto o misterioso, poiché già si annuncia nella stessa immediatezza sensibile, in quanto singolarità e insieme relazione al Tutto, in quanto complessità di tempi irriducibili gli uni agli altri, in quanto attività e passività, che si riflettono nel rapporto tra lógos e páthos, tra ragione e affettività, rapporto che per definizione sfugge alla legislazione del solo lógos” (p. 326).
Cosa vuol dire, allora metafisica? Il suo compito sommo è quello di porre una relazione tra osservabile e inosservabile in termini di indagine sempre aperta, ovvero: una volta posti i principi di ta physiká, la metafisica indaga la possibilità dei fondamenti della stessa, compito che spetta solo e unicamente a essa. Ecco che tra scienza e metafisica si instaura un necessario legame per comprendere e rispondere alle sfide del tempo presente (si capisce il rimando a Spengler, il quale afferma, ne Il tramonto dell’Occidente, parlando del secondo principio della termodinamica, che l’assunzione del dato statistico mostra la crisi della civiltà faustiana e della sua forza organizzatrice, a cui segue una confusione in forza della quale elementi storici e naturalistici stanno insieme senza alcuna distinzione). Dall’osservazione delle cause finite e dei loro nessi sorgono i problémata che caratterizzano ogni indagine sull’essente, e, in merito a ciò, “metafisica significa volerli affrontare, non rimuoverli, non dimenticarli, e nient’affatto pretendere di risolverli. […] Metafisica si muove dunque sul confine, o piuttosto sulla soglia, mai determinabile una volta per sempre tra osservabile e inosservabile. È ‘oltre’ l’osservabile nella misura in cui ogni confine è sempre anche oltre-passabile, ed è, a un tempo, ‘con’ tutto ciò che all’interno di quel confine il giudizio sembra poter definire. Il suo lógos consiste nel porre questa relazione” (pp. 412-413).
In conclusione, metafisica risulta un sapere concreto perché vive il suo inizio e il suo svolgimento assieme alla cosa stessa e, parimenti, acquisisce il carattere di non-sapere poiché la cosa stessa è osservabile sollo sfondo della sua inconosciuta origine e del suo non prevedibile sviluppo. La grande sfida che attraversa ogni pagina del libro in questione è quella di ribadire la necessità della metafisica nel mondo dominato dalla scienza e dalla tecnica, di certo non come ancella di queste ma come dimensione essenziale al sapere stesso in tutte le sue declinazioni e al vivere umano dalle cui domande vengono scossi in ogni tempo i paradigmi scientifici e culturali considerati ultimi. La metafisica è questo continuo rimando all’inesauribile di ciò che appare, a quel qualcosa che sfugge caratterizzando l’essente e la sua non disponibile determinazione definitiva.
(14 gennaio 2025)