mercoledì , 22 Gennaio 2025
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190. Recensione a: Bruno Centrone, Vita in comune. Il pitagorismo nel mondo antico, Carocci, Roma 2024, pp. 292. (Federico Casella)

Tra gli storici della filosofia antica, si è talvolta imposta la convinzione che il pitagorismo sia un movimento i cui contorni sono talmente sfumati, complessi o anche irrimediabilmente sovrapposti (se non fusi) ad altre tradizioni da scoraggiare la speranza di ricostruire adeguatamente la sua storia e le sue dottrine: ciò è dovuto, caso insolito per l’antichità, a una sovrabbondanza di fonti, e non di rado anche alla volontà, da parte di chi scriveva del pitagorismo, di “appropriarsene”, di presentare cioè il proprio pensiero come convergente con l’autorevole pitagorismo delle origini. Con il suo recente volume, suddiviso in dodici capitoli, arricchito da un agevole index nominum e da una bibliografia ampia e aggiornata, Bruno Centrone si immerge allora in questo “pantano” (morass, secondo la significativa definizione di C.A Huffman, A History of Pythagoreanism, Cambridge University Press, 2014, p. 1) per tentare di fornire una storia del pitagorismo, con particolare attenzione al periodo più arcaico.
Nel primo capitolo, Questioni preliminari, Centrone illustra i criteri che egli ha adottato per ricostruire la storia del pitagorismo, dalla cerchia più arcaica (fondata da Pitagora nel sec. VI a.C. a Crotone, sopravvissuta e irradiatasi – con alterne vicende – nell’Italia meridionale e in Grecia fino al sec. IV a.C.) alla rinascita del pitagorismo dopo l’età ellenistica (a partire dal sec. I a.C.). Secondo Centrone, per studiare il pitagorismo più arcaico è opportuno focalizzare l’attenzione su quegli autori che la dossografia ha tramandato come effettivamente appartenenti all’associazione, i cui interessi di ricerca convergono, poi, con quegli assunti generali che Aristotele attribuisce proprio ai pitagorici. Per studiare il pitagorismo dopo l’estinzione della cerchia più arcaica, è invece utile guardare a quei personaggi che dichiarano o di professare un bios, un “genere di vita”, i cui dettami si sovrappongono a una serie di norme convenzionalmente ritenute pitagoriche o di promuovere una filosofia che eleva i numeri a oggetto di riflessione principale.
Il secondo capitolo, Il problema delle fonti, seleziona di conseguenza le più importanti testimonianze su Pitagora e sui pitagorici. Le fonti più antiche, oltre a qualche menzione polemica da parte di Senofane, Ione di Chio, Eraclito, Erodoto, furono Platone e l’Accademia, accanto ad Aristotele e al Peripato. Per Platone e per la sua scuola, è indubbio affermare che il pitagorismo rappresentò una tradizione decisiva, ad esempio con la dottrina dell’immortalità dell’anima (e la metempsicosi) ed eventualmente con la convinzione che i numeri fossero un elemento che determina (da solo o assieme alle idee) il sensibile. Aristotele e il Peripato dedicarono ampio spazio ai “cosiddetti” pitagorici, non solo per analizzarli approfonditamente ma anche per criticarli, talvolta, però, anche per celebrarli e per tramandarne i valori, come fecero Aristosseno di Taranto e Dicearco di Messina. Importanti sono, poi, le informazioni fornite da storici come Timeo di Tauromenio e Neante di Cizico. A partire dall’età imperiale, arricchiscono ulteriormente la panoramica di testimonianze Apollonio di Tiana – autore di scritti sul pitagorismo e praticante un genere di vita pitagorico – Porfirio e Giamblico – con le loro biografie di Pitagora – e Diogene Laerzio. Le informazioni sono, però, spesso fortemente disomogenee tra loro.
Il terzo capitolo, Vita di Pitagora e vicende storico-politiche, si focalizza sulla fondazione della prima cerchia a Crotone per mano di Pitagora nel sec. VI a.C., e cerca di determinare se essa si fosse costituita come un movimento primariamente politico, una delle rappresentazioni più radicate nelle fonti antiche. È sicuro affermare che Pitagora, nativo di Samo, avesse origini aristocratiche e che dopo varie vicende fosse arrivato a Crotone, dove istituì il primo circolo. Le testimonianze di suoi viaggi in Egitto forse rispecchiano il topos del viaggio di formazione del sapiente greco presso popoli molto più antichi, ma non sarebbe corretto escludere in linea di principio qualche contatto. È attestato che a Crotone Pitagora avesse rivolto discorsi di natura moraleggiante ed educativa a varie frange della popolazione. Vi furono, in seguito al consolidamento della cerchia crotoniate, rivolte contro i pitagorici, forse dettate dall’ostilità verso un gruppo che veniva percepito come elitario ed esclusivo. La morte di Pitagora, di cui esistono diverse versioni, va ricondotta al periodo della presunta prima rivolta (fine sec. VI a.C.), e portò alla dispersione dei pitagorici in varie città dell’Italia meridionale, con Taranto come centro intellettualmente più vibrante. Secondo Centrone, è possibile che i pitagorici avessero un qualche legame con la politica (o che qualche politico di Crotone si fosse avvicinato al pitagorismo), ma non è corretto ammettere che il movimento nacque e si determinò dichiaratamente come un’associazione politica.
Nel quarto capitolo, L’enigma di Pitagora, Centrone guarda invece a quelle altre testimonianze che ritraggono, in primo luogo, Pitagora come sciamano, taumaturgo, guru e uomo divino caro ad Apollo e, in secondo luogo, la sua cerchia come una setta religiosa. In aggiunta, tali testimonianze attribuiscono al pitagorismo la convinzione che l’anima sia un’entità il cui destino felice di incarnazione in numerose vite, all’interno di un ciclo continuo di metempsicosi, va assicurato tramite il rispetto di pratiche e precetti tramandati da Pitagora. Secondo Centrone, la metempsicosi può certamente essere una dottrina originaria di Pitagora; egli può aver inoltre contribuito alla sua leggenda di uomo straordinario codificando un preciso genere di vita a supporto di credenze mitico-religiose condivise dai membri della sua cerchia.
Il quinto capitolo, L’associazione pitagorica, si concentra su ulteriori testimonianze a proposito del circolo più arcaico, presentato dalle fonti o come una comunità con precise regole di vita e di culto, o come una confraternita con vari gradi di affiliazione, o come una scuola filosofica e scientifica. È certamente indubbio che i membri della cerchia più arcaica fossero accomunati dalla credenza in un culto specifico, con un genere di vita a esso collegato. A questo riguardo, viene tramandata la particolare condivisione dei beni da parte dei pitagorici: secondo Centrone, vi è forse qualche fondo di verità, a riprova dell’esistenza di solidarietà tra affiliati, forse nella forma di comunanza della proprietà terriera (da qui, eventualmente, l’origine di dissidi con altre frange dell’aristocrazia, che sfociarono nei moti anti-pitagorici). La nota distinzione tra Acusmatici, i membri più giovani, e Matematici, i pitagorici più anziani e dunque maggiormente sapienti, non è invece plausibile: piuttosto, essa testimonia l’evoluzione degli interessi dei pitagorici, da un’iniziale enfasi su precetti e regole di vita (tramandati come akousmata) per il pitagorismo più arcaico a un interesse per riflessioni naturalistiche e matematiche per i pitagorici di epoca e generazioni successive.
Nel sesto capitolo, Filosofia pitagorica, Centrone cerca di ricostruire le origini, oltre che determinare il contenuto, della filosofia pitagorica. Alcune fonti attribuiscono a Pitagora l’invenzione del termine “filosofia”: è probabile che egli diede a questa parola un particolare risalto, sebbene sia impossibile determinarlo con assoluta certezza; è più sicuro affermare che un vero e proprio pensiero filosofico possa essere rintracciato nei Pitagorici di epoca successiva. A questo proposito, Aristotele ascrive ai “cosiddetti pitagorici” una serie di convinzioni: ad esempio, l’eminenza attribuita ai numeri (con l’identificazione tra numeri e cose stesse), l’armonia tra coppie oppositive alla base della realtà (limite-illimitato, pari-dispari, uno-molti, etc.), e una precisa disposizione del cosmo. Si tratta di dottrine la cui fonte principale è, plausibilmente, il pitagorico Filolao (sec. V a.C.), echeggiato anche da Platone (ad esempio nel Filebo): è probabile quindi che fosse Filolao, più che Pitagora, il vero “fondatore” di una filosofia pitagorica.
Nel settimo capitolo, Una matematica pitagorica?, Centrone riflette su una delle più diffuse convinzioni riguardanti il pitagorismo, ossia il binomio “Pitagora-numeri”. È indubbio affermare che la matematica greca fosse esistita prima del pitagorismo: occorre allora determinare che tipo di interazione essa avesse stabilito con il movimento. Molto probabilmente, l’interesse per i numeri della cerchia più arcaica, incluso Pitagora, doveva avere un carattere mistico-simbolico (con i numeri identificati con cose e valori, e in possesso di valenze e poteri): l’immagine di Pitagora matematico è infatti sicuramente una proiezione all’indietro di convinzioni di epoca successiva. Un interesse più teorico per le matematiche si deve ai pitagorici posteriori alla morte di Pitagora, eminentemente a Filolao e ad Archita.
L’ottavo capitolo, Gli ultimi pitagorici, si focalizza brevemente sugli ultimi pitagorici attivi dopo le rivolte anti-pitagoriche dell’Italia meridionale. Molti ripararono in Grecia, dove divennero fautori di un bios con rigide regole di vita, con la convinzione nell’immortalità dell’anima e nella cura per lo sviluppo delle virtù. Essi vennero anche canzonati dalla Commedia di Mezzo per la vita estremamente frugale, e non è implausibile pensare che proprio per questo aspetto fossero molto vicini ai Cinici.
Nel nono capitolo, Il nuovo pitagorismo, Centrone ricostruisce i complessi contorni della rifioritura del pitagorismo a partire dal sec. I a.C., dopo il suo declino in età ellenistica e, soprattutto, dopo la fine della sua forma associativa. La rinascita è sancita da un’ampia produzione di apocrifi: si tratta di testi attribuiti a pitagorici antichi, ma che presentano dottrine di varie tradizioni di pensiero, giustapposte tra loro nella convinzione di appartenere a un presunto sostrato pitagorico originario e autentico (ad esempio gli Hypomnemata di Alessandro Poliistore, gli Pseudopythagorica dorici, e molti altri trattati ed epistole di argomento etico, politico, cosmologico, teologico). Si assiste, poi, all’affermazione di sistemi di pensiero che sembrano richiamare in parte assunti pitagorici, ma con diverse sfaccettature, soprattutto platoniche: ad esempio, Eudoro di Alessandria, Moderato di Gades, Nicomaco di Gerasa e Numenio di Apamea, accanto alla peculiare figura di Apollonio di Tiana. Riguardo a questi, si potrebbe parlare più opportunamente di platonici pitagorizzanti, che stabiliscono più o meno esplicitamente una continuità tra concezioni che essi ritenevano autenticamente pitagoriche (l’importanza dei numeri, le sorti dell’anima, i principi primi Uno e Diade, etc.) e istanze platoniche. Nella tarda antichità, vi è poi l’immissione sistematica del pitagorismo nel platonismo per mano di Giamblico. Occorre notare, infine, che il pitagorismo fu anche probabilmente il primo movimento filosofico con cui i Romani entrarono in contatto (per la vicinanza ai circoli dell’Italia meridionale), un fatto che forse contribuì alla sua rinnovata diffusione a partire dalla prima età imperiale.
Il decimo capitolo, Gli Aurei versus, considera brevemente uno dei documenti pitagorici più celebri, i Versi d’oro, concepiti nella tarda antichità come un testo originario del pitagorismo più arcaico, ma certamente uno pseudoepigrafo (sulla cui datazione gli studiosi sono divisi). Centrone riporta i versi più significativi, sottolineando la natura composita del testo, che unisce elementi pitagorici effettivamente antichi (ad esempio, inviti a osservare alcune pratiche di vita) a dottrine di epoca posteriore al circolo più arcaico, appartenenti ad altre tradizioni di pensiero.
Nell’undicesimo capitolo, Pitagorismo e orfismo, viene affrontato un altro binomio consolidato nell’immaginario comune circa il pitagorismo: “Pitagora-Orfeo”. La fusione tra orfismo e pitagorismo si deve soprattutto ai neoplatonici, che stabilirono una catena di trasmissione del sapere da Orfeo a Pitagora a Platone. Al di là dell’attenzione alla sfera dell’anima e alla sua immortalità, tratto che accomuna orfismo e pitagorismo, Centrone nota come, in realtà, emergano molte differenze: il pitagorismo originario ebbe una dimensione politica estranea all’orfismo, e il movimento pitagorico arcaico determinò, nel tempo, anche la nascita di una filosofia; il primo codificò un preciso genere di vita etico-pratico, differente dai rituali e dai percorsi di iniziazione dell’orfismo; il pitagorismo vedeva, poi, in Apollo la divinità principale, al contrario del Dioniso degli orfici.
Infine, il dodicesimo capitolo, La fortuna del pitagorismo: brevi cenni, traccia sommariamente una storia della ricezione del pitagorismo, da Pitagora come fonte di autorità (mistica e aritmetica) nel Medioevo fino all’“esplosione” dell’interesse per il pitagorismo nel Rinascimento, eventualmente con echi in Newton e Leibniz, per l’importanza del numero-principio, e nelle storie della filosofia fino al diciannovesimo secolo, per la convinzione che Pitagora avesse trasmesso all’Occidente un sapere orientale più ancestrale. In ambito non speculativo, il pitagorismo esercitò senz’altro un fascino esoterico per varie confraternite o movimenti settari.
Nel suo complesso, il volume di Centrone fornisce una preziosa ricostruzione della storia del pitagorismo e, specialmente, del suo periodo più nebuloso, quello delle origini, tentando di filtrare la sovrabbondanza di informazioni per offrire al lettore un profilo plausibile della figura di Pitagora (certamente il codificatore di un preciso genere di vita), del movimento da lui fondato a Crotone e delle sue innumerevoli evoluzioni e incarnazioni, insistendo opportunamente sulla fluidità di una delle tradizioni culturali più decisive e affascinanti del pensiero occidentale.

(22 gennaio 2025)

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