Attraverso una sapiente e approfondita ricognizione delle filosofie dell’abitudine nell’Ottocento e nel primo Novecento francesi, e uno sguardo teoretico comunque ben presente e in modo importante, il volume analizza con precisione e radicalità uno dei temi senz’altro principali del pensiero e dell’opera di Proust. Come spiega l’autrice, l’intento dello studio non è soltanto di rintracciare le eventuali fonti proustiane o di ricostruire il dibattito sul tema, avvalendosi dei manoscritti, delle lettere e soprattutto della Recherche, bensì di suggerire una proposta plausibile riguardo a una possibile filosofia proustiana dell’abitudine. Il volume ha quindi un doppio merito: offrire al lettore e allo specialista un quadro ordinato, puntuale ed esauriente della tradizione del problema, con una metodologia ricostruttiva tanto cara alla storia delle idee; pensare in modo originale e profondo, da un punto di vista teoretico ed ermeneutico, il rapporto di Proust con l’abitudine, che diventa il concetto, il nucleo, il tema, con cui attraversare la Recherche e spiegarla a partire da uno dei suoi meccanismi più caratteristici.
In tal senso, l’abitudine si configura, nella proposta dell’autrice, come uno degli strumenti concettuali maggiormente esplicativi, certamente non l’unico, ma senz’altro uno dei più premianti, sicché scegliere e perseguire la pista dell’abitudine in Proust permette di ottenere nuove acquisizioni teoriche sulla filosofia dello scrittore e sul sapere filosofico in generale. Tutto questo alla luce di un’impostazione metodologica di base rigorosa e ben espressa, che tiene conto del vivo dibattito contemporaneo sui rapporti tra filosofia e letteratura e suddivisa in due parti: un primo «approccio di tipo storico-filosofico, necessario per ricostruire la varietà delle fonti filosofiche e psicofisiologiche sull’abitudine che Proust aveva a disposizione»; e un secondo approccio che ingaggia «un confronto diretto» con la Recherche, tentando di mettere in luce «la possibilità di leggere nel romanzo una teoria dell’abitudine che possa contribuire in modo originale all’odierno e più che mai vivo dibattito sull’abitudine» (p. 15).
Nell’analisi di questo testo, mi concentrerò sugli aspetti più teoretici, e dunque principalmente sulla seconda parte. Sin dall’Introduzione, l’autrice chiarisce molto bene, partendo dalle note definizioni che Proust dà nel romanzo e indicate da Marco Piazza, cosa lo scrittore intenda per abitudine, inserendo dei commenti circostanziati. Da una parte, l’abitudine è una forza psico-fisica che anestetizza la sofferenza rendendo la vita più sopportabile, nonostante la sua comunque ineliminabile carica dolorosa; dall’altra, essa, quando viene meno il suo oggetto, come nel caso paradigmatico della separazione amorosa lucidamente analizzato da Proust nell’affaire Albertine, è causa di un dolore ancora più grande della sofferenza particolare da cui ci si stava proteggendo abituandosi. Con le parole dell’autrice: «L’aiuto che lo spirito chiede all’arredatrice esperta è una sorta di male necessario, un sollievo che porta con sé l’annichilimento come scotto da pagare», a cui si aggiunge un’osservazione molto acuta e precisa: «L’ignoto nascosto nel mondo circostante, che l’abitudine con la sua abilità ha saputo rendere familiare, puntualmente si ripresenta al momento della sua sospensione. A questo si aggiunge, però, un dolore ulteriore, intimamente connesso con l’abitudine che, per un motivo o per un altro, si è interrotta. La fine di un’abitudine non soltanto ripristina una generica non familiarità con un certo ambito dell’esistenza, ma è anche causa diretta di un preciso sentimento di mancanza – la mancanza dell’abitudine stessa» (pp. 24-25). Concetto che viene espresso con maggiore sintesi più avanti: «Nella Recherche, infatti, l’abitudine è arredatrice esperta e divinità temibile: si presenta da un lato, grazie alla propria azione anestetizzante, come il fatto capace di minimizzare il timore nei confronti delle nuove circostanze e delle nuove relazioni, ma possiede, essa stessa, un lato terrificante, poiché la sua interruzione improvvisa causa inevitabilmente angoscia e sofferenza» (p. 89).
A prescindere dalle teorie a cui Proust può aver attinto per riprendere o rielaborare la sua personale proposta filosofica sull’abitudine (Darlu, Egger, Maine de Biran), questo aspetto fatto emergere dall’autrice mostra chiaramente la profonda insecuritas che secondo il parigino è caratterizzante l’esistenza umana, la sua estrema mutevolezza, il suo essere soggetta al tempo, al divenire, alla distruzione, a cui solo la scrittura può fornire un rimedio. La vita è un adattamento continuo al circostante, e lo strumento di cui disponiamo per non soccombere alla frenesia delle novità che ci investono è adattarsi, abituarsi, far penetrare il mondo nel sé, che sia una stanza in cui non si era mai dormito o una donna il cui amore diviene indispensabile per reggere la ferita esistenziale della finitudine.
L’aspetto interessante della dinamica abitudinaria di Proust è infatti il richiamo costante e disilluso alla sua fine, e soprattutto al potere rivelativo del fondo reale dell’esistenza nella sua più vera identità, nella sua ineludibile matrice dolorosa, di cui l’habitude è una delle strategie di protezione, destinata comunque al fallimento e quindi a far soffrire. In questo senso, la saggezza proustiana sta anche nell’abituarsi, o per meglio dire nel conoscere profondamente anche queste dinamiche della mente, della memoria e del corpo, per meglio affrontare i dispiaceri della vita, come saper reagire a eventi nefasti e sommamente dolorosi, quali la morte della nonna o l’abbandono di Albertine. In questo modo, si possono evitare gli stessi errori del narratore, sia quando l’oggetto amoroso è prigioniero sia quando esso fugge, abbandona. Difatti: «La correlazione fra l’abitudine e il bisogno è uno dei perni attorno al quale ruota l’universo sentimentale della Recherche; è, per fare un esempio su tutti, il nucleo stesso e il senso fondamentale di ciò che lega il protagonista ad Albertine. L’abitudine, o meglio, l’interruzione dell’abitudine ad avere accanto a sé Albertine produce nel protagonista un intensificarsi improvviso del desiderio che si trasforma in un vero e proprio bisogno: un’ansia di possesso tale da creare la figura della prigioniera» (p. 60).
Tecnicamente, l’autrice formula per lo più due figure dell’abitudine proustiana, basate sull’intensità delle impressioni e della sensibilità, rispettivamente a intensità debole e a intensità forte. Nella prima ipotesi, l’abitudine altro non è che un meccanismo di adattamento a determinate percezioni, sicché a un certo habitus percettivo ne corrisponde un altro dell’azione. Come nel caso della stanza d’albergo di Balbec, il narratore si abitua alla diversità delle percezioni rendendole abituali, disinnescando in tal modo la loro carica dolorosa. Nondimeno, rimangono delle impressioni soggettive distanti dall’obiettività della realtà: «Seppur sbilanciata verso l’oggetto, questa figura della percezione non è interessata a restituirne un’immagine fedele: una volta istituita una configurazione conosciuta, e soprattutto riconoscibile, del mondo, poco importa che il mondo sia proprio così come lo si conosce. Ben più importante è che abbia un profilo familiare, maneggevole, rassicurante» (p. 109). In altre parole, purché si smetta di soffrire, l’abitudine, fondata sulla percezione di impressioni anche falsate rispetto alla realtà, le fissa e le reitera in modo da consentire rapidamente una relazione pacificata con il mondo. Infatti: «Il bisogno di adattamento intrinseco all’umano è il fondamento stesso di ogni abitudine e per questo motivo non può essere messo a tacere da essa» (p. 111). La concezione proustiana dell’abitudine, almeno in questa prima fase, consisterebbe dunque nella familiarizzazione tipizzata e serializzata con le percezioni, addomesticate e rese innocue rispetto a una loro possibile ingerenza dolorosa nel soggetto. In altre occasioni, ad esempio nella contemplazione di un paesaggio, l’abitudine, invece, permette che la percezione si faccia più intensa e raffinata.
Un altro aspetto, forse il principale e quello riepilogativo della struttura e del significato dell’abitudine, è legato al sentimento amoroso. Come già detto, l’amore è il frutto di un’abitudine consolidata intorno al soddisfacimento di un bisogno, e quando questa abitudine viene a mancare, poiché si sottrae il proprio oggetto, scatta immediatamente la sofferenza che tipicamente si associa a quella per la perdita, momentanea o definitiva, di ciò che la genera. Ogni abitudine si origina o si fonda su un bisogno ma ciò è particolarmente evidente nell’abitudine amorosa, in cui il desiderio e la necessità del soddisfacimento divengono violenti, assolutamente indispensabili. E ciò perché il mantenimento dell’abitudine solo in minima parte dipende dalla volontà individuale, dall’azione soggettiva, poiché il fondamento è da rinvenire in un altro soggetto altrettanto libero di agire, anche nei modi più sorprendenti, minacciosi e inconsulti. «L’oggetto amoroso è l’oggetto più sfuggente di tutti, poiché è a sua volta un soggetto, con sensibilità, con passioni e con desideri propri – l’Altro per eccellenza. Rimane allora solo un tentativo possibile per cercare di rompere la coltre di mistero che avvolge tutto ciò che non fa parte dell’interiorità del soggetto, per comprenderne i movimenti e renderli prevedibili: incorporare l’essere amato, renderlo proprio» (p. 125).
Anche per la sua motivazione abitudinaria il sentimento amoroso si rivela nella sua realtà feroce, volubile e dolorosa, che nell’analisi proustiana assume i connotati di un male vero e proprio, una sciagura per l’esistenza assolutamente da rifuggire, a meno che non si possegga una padronanza e una conoscenza totali del fenomeno che, sfortunatamente, secondo il parigino sopraggiungono quando ormai si è fatta esperienza del dolore, quindi troppo tardi. Il lato più terribile dell’amore, la gelosia, è anch’esso uno schema dell’abitudine, volto inizialmente a difendere dal dolore della mancanza e della perdita, nel tentativo disperato di riottenere ciò che fugge e di imprigionarlo, ma che finisce per dilaniare il soggetto innamorato devastato dal suo desiderio. L’associazione di idee svolge in questo caso un ruolo decisivo, poiché «trasforma l’amore in amore di qualcuno», ma «a sancire la formulazione abitudinaria dell’amore è il suo opposto complementare: la gelosia. Così come la percezione abituale diviene tale per eludere la paura dell’imprevisto o dell’ignoto, l’amore si fa abitudine per sfuggire alla gelosia che lo abita fin dal primo momento» (p. 142).
Il nostro io, conclude l’autrice, è coglibile e spiegabile come un fascio di abitudini, il più delle volte sepolte e obliate. L’effetto della memoria involontaria sarebbe allora non tanto l’esplosione sensoriale e materiale di ricordi nascosti, che solo una sensazione simile poteva far riemergere alla coscienza, ma un’intera trama di abitudini, come quella di intingere una madeleine nel tè nei tempi lontani di Combray, di cui si diventa consapevoli soltanto grazie al capriccio causale degli incontri materiali che si compiono nella vita. Per Proust, dunque, il moi profondo si rivela quando avviene la rottura di un’abitudine, che per quanto dolorosa possa essere è l’unico modo per raggiungere quella vera vita di cui la letteratura deve essere la luce dirimente. «Piccole violenze indispensabili» (p. 191), scrive l’autrice, per scoprire l’ignoto del mondo e di noi stessi. E questo in linea con quanto diceva lo stesso Proust, secondo il quale l’umano è quell’essere malconformato che ha bisogno di soffrire per conoscere.
(23 gennaio 2025)