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24. AA.VV., A come animale. Voci per un bestiario dei sentimenti, cura di Leonardo Caffo e Felice Cimatti, Bompiani, Milano, 2015, pp. 320 (Alberto Giovanni Biuso)

9788845278570Ci sono delle parole che vengono utilizzate di continuo. E quanto più vengono pronunciate e ascoltate, tanto perdono di significato, sino a indicare qualcosa che -di fatto- non esiste. Animale è una di queste parole, forse la più pervasiva e la più antica. L’animale, infatti, non esiste. Questo suono-grimaldello chiude la molteplicità biologica dentro un segno che la sottopone al dominio di una sua parte, la parte umana. Questo suono-grimaldello apre le pratiche umane alla legittimità dello sterminio. Il risultato è che l’animalità diventa invisibile, prima di tutto l’animalità che noi stessi siamo. «L’ospite animale è un fantasma incapace di farsi conoscere perché incapace di mitigare l’arroganza di chi già pensa di conoscerlo» (Marchesini, p.178).
Questo bestiario in 21 voci intende dunque prima di tutto ricordarci questa assenza, farci vedere tale invisibilità. La sua (grande) ambizione è esplicita ed è sintetizzata nella formula introduttiva per la quale «questo è un libro in cui non si parla di animali, è un libro animale» (Caffo-Cimatti, 7). Il progetto, bisogna dire, è riuscito solo in parte, a causa del livello molto -troppo- diverso delle singole voci che lo compongono, alcune delle quali mi sono parse imbarazzanti nella loro approssimazione anche metodologica. E però là dove il libro sa dire pronuncia delle parole significative.
L’animale è infatti prima di tutto un’epifania, è una «annunciazione, capace di essere portatrice di significati che non derivano né dall’immaginazione dell’uomo, come entità ideativa solitaria, né dalla mera presenza fenomenica dell’animale, ma dall’ibridazione delle due dimensioni» (Marchesini, 187).
Contro il monoteismo dell’identità, di qualunque identità, reclusa in se stessa e chiusa all’intero, l’animalità è infatti Differenza, è «l’immenso corpo naturale spinoziano» nel quale siamo tutti eguali in quanto tutti animali «eppure tutti diversi: gli animali umani e non umani, venendo al mondo, lo raccontano ognuno con versi propri» (Caffo, 211); l’animalità è la forma amorosa di cui parla Diotima, volta a «far essere l’altro, ovvero ancora un un movimento che è produzione di differenza e che invita a pensare la differenza come costitutiva della possibilità stessa di essere» (Illetterati, 68); l’animalità è «lo Zwiefalt di Martin Heidegger -ovvero il differenziante della differenza: infiniti modi dell’essere, che noi chiamiamo individui, non smettono di stupirci e mostrarsi -rendendo l’esistenza assai più simile a una sinfonia che al triste soliloquio, insopportabile, che è stato raccontato dall’antropocentrismo» (Caffo, 214).
L’animalità è Flusso, è il dispositivo più antieleatico che esista, fatto di un movimento che è la sua stessa sostanza, ragione d’essere, modo di manifestarsi. Il terrore di questo moto perpetuo ha indotto l’animale umano a inventare e praticare una serie di strategie volte a fermare tale flusso.
Strategie come il linguaggio, con Adamo che dando nome agli animali li sottomette al proprio regime di segni; strategie come la fotografia, la quale -secondo un’intuizione di Roland Barthes- «è stata inventata proprio per bloccare l’insopportabile dinamismo animale» (Cimatti, 17); strategie come gli zoo, la cui struttura di reclusione è la più evidente negazione del fatto che «l’animale è sempre nel flusso della vita» (Id., 22) ed è questo che ci terrorizza davvero, sino all’insostenibile. Per quale ragione? Perché l’animalità è l’evidenza del corpo e del tempo, della corporeità temporale che noi tutti siamo. Nominare, recludere, uccidere un animale è quindi un tentativo di fermare il tempo e la morte. Gli animali sono i «testimoni di questa battaglia, contro il divenire, contro la natura» ma alla fine e sempre l’esistenza si conclude e in questo modo ci dice «quanto sia illusoria la speranza di fermare il movimento del tempo» (Id., 24).
Oltre a essere epifania, differenza e flusso, l’animale è -semplicemente- corpo. L’animale può dire davvero «Leib bin ich ganz und gar, und Nichts ausserdem», corpo io sono in tutto e per tutto e nient’altro (Also sprach Zarathustra, I parte, ‘Von den Verächtern des Leibes’). L’invisibilità dell’animale è dunque l’invisibilità del corpo temporale, del corpo mortale, della morte. Il corpo-tabù, che è tale nonostante l’illusione del contrario nella società dello spettacolo, è la morte-tabù. L’animale «ci ricorda che un corpo, alla fine, è una massa di materia che sta da qualche parte, per un po’ di tempo, a fermare i raggi di luce» (Cimatti, 16). ‘Per un po’ di tempo’. La difficoltà di sostenere il fatto -evidente, costitutivo e inaggirabile- che i corpi esistono sempre e soltanto ‘per un po’ di tempo’ produce delle disperate strategie di immortalità, la più antica delle quali è la morte dell’Altro, la morte dell’animale già da vivo attraverso il nome –animot dice Derrida, «‘crasi’ tra animaux, animali e mot, parola-trappola» (Adorni, 28), «l’animale inseparabile dalla parola che lo designa e lo condanna» (Cimatti, 301)-, attraverso la domesticazione, attraverso la reclusione, attraverso la macellazione. Dare la morte all’altro animale è il tentativo di cui parla Elias Canetti di trasmettere la spina del vivere a un altro, in modo da illuderci sul nostro sopravvivere. In sintesi, «c’è allora qualcosa di mortifero, nello sguardo dell’uomo sull’animale, e lo zoo è il trionfo -più o meno esplicito, più o meno nascosto, più o meno rimosso- della pulsione di morte implicita in quello sguardo» (Cimatti, 294).
Diciamo il mio animale come diciamo il mio corpo ma noi non possediamo l’animale e non possediamo il corpo. Noi siamo corpo e siamo animale. Cominciare a utilizzare ‘essere’ invece che ‘avere’ quando ci riferiamo al corpo che siamo è probabilmente la condizione stessa per potere comprendere l’animalità come identità che ci accomuna e come differenza da accogliere senza che nel mezzo ci siano delle gabbie, senza che nel mezzo ci sia il terrore.

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