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48. Recensione a: Aniello Montano, Le radici presocratiche del pensiero di Giordano Bruno, Libreria Editrice Redenzione, Marigliano 2013, pp. 152. (Igor Tavilla)

Il prossimo 13 dicembre ricorre il primo anniversario di morte di Aniello Montano (Acerra, 1941 – 2015), professore di storia della filosofia presso l’Università degli Studi di Salerno, tra i più stimati esperti del pensiero di Giordano Bruno, studioso di Gianbattista Vico e di Baruch Spinoza, nonché ideatore e presidente del Certamen Internazionale Bruniano – competizione filosofica rivolta a studenti universitari e delle scuole superiori, giunta ormai alla XVI edizione.
Nell’ampia bibliografia dedicata al filosofo nolano, si segnala in particolare il volume Le radici presocratiche del pensiero di Giordano Bruno, pubblicato nel 2013 dalla Libreria Editrice Redenzione di Marigliano, con Prefazione di Michele Ciliberto. Il testo, definito dal prefatore «il lavoro più importante tra i molti dedicati al Nolano» (p. 10) affronta, con la chiarezza e la solidità argomentativa che hanno sempre contraddistinto la produzione storico-filosofica di Aniello Montano, l’influenza esercitata dai filosofi presocratici sul pensiero di Giordano Bruno. In un «intreccio equilibrato di storia e storiografia» (p. 11), il libro di Montano vanta il merito di aver sondato l’intero corpus bruniano, non limitandosi dunque a considerare le sole opere in volgare – i cosiddetti “Dialoghi italiani”, su cui più spesso indugia la critica – ma prendendo in esame, insieme a queste, le ben più numerose e neglette pagine latine.
Nell’Introduzione, l’autore esplicita le ragioni che lo hanno portato a escludere dal novero dei precursori del pensiero bruniano, i pluralisti Anassagora e Democrito. Contro il parere del filosofo positivista Raffaele Schiattarella – il quale, alla fine dell’Ottocento, aveva riconosciuto in Bruno il “veggente glorioso della scienza” e nell’atomismo meccanicistico e ateo di Democrito la matrice del suo pensiero – Montano ritiene che, per quanto il filosofo di Abdera possa aver indirettamente ispirato il principio secondo cui l’infinità dei mondi deriverebbe dall’infinità delle cause che li producono (gli atomi), il materialismo democriteo mal si coniughi con l’idea – sostenuta da Bruno nel De la causa, principio e uno (1584) – della presenza nella natura di “doi geni di sustanza, l’uno che è la forma e l’altro che è materia”. Infine, i riferimenti ad Anassagora di Clazomene, legati all’idea di un immenso caos governato da una mente separatrice e all’elogio della mano appaiono, tutto sommato, episodici e secondari rispetto all’incidenza, ben più sostanziale, di altri autori.
Il primo capitolo, Bruno e la questione delle fonti, consiste in un’accurata disamina della letteratura critica bruniana, dalla quale emerge come la radice antichistica sia stata costantemente all’attenzione degli interpreti del Nolano, da Pierre Bayle a Jacobi fino a Dilthey. È stato Felice Tocco però a sottolineare «con più convinta determinazione» (p. 26) l’importanza della fonte presocratica nel pensiero del Nolano, seguito da Rodolfo Mondolfo. Di tutt’altro avviso Giovanni Gentile, il quale – influenzato da Bertrando Spaventa e dalla concezione lineare della storia proposta da Hegel nelle sue Lezioni di storia della filosofia – considera Bruno più vicino a Spinoza che ai filosofi presocratici, relegando questi ultimi nell’infanzia dello spirito. Altrettanto opinabile è secondo Montano l’interpretazione offerta da Frances A. Yates nel suo celebre Giordano Bruno e la tradizione ermetica (1969). Mossa dal pregiudizio ermeneutico di voler accreditare la tradizione magica quale fonte privilegiata ed esclusiva del pensiero bruniano, l’autrice misconosce – contro ogni evidenza – il riferimento operato da Bruno ai filosofi presocratici. 
Nel secondo capitolo, Bruno e i presocratici, Montano individua nella Metafisica di Aristotele e nei dossografi greci, Diogene Laerzio e Sesto Empirico, le fonti materiali da cui Bruno ha attinto. L’autore – meritoriamente, secondo Ciliberto – propone una nuova periodizzazione dell’evoluzione intellettuale di Bruno, facendo risalire agli ultimi anni del noviziato in San Domenico Maggiore a Napoli, la sua presa di distanza dalla concezione aristotelica di un’evoluzione unitaria e lineare del sapere, che troverebbe il proprio compimento nella filosofia dello Stagirita. Scienza e filosofia – pensa Bruno – procedono per salti, e la storia del pensiero è un alternarsi di verità ed errore, tenebra e luce, progresso e regresso. La bontà di una dottrina non dipende perciò dalla sua antichità o modernità, quanto piuttosto dalla sua adesione alla natura stessa delle cose. Bruno riconosce pertanto un’affinità di fondo tra la propria riflessione e quella dei primi filosofi naturalisti. Contro i pedanti – portatori di un sapere “verbifico”, fatto cioè di parole e inutile a spiegare la realtà – Bruno sta con quanti hanno cercato di conformare la propria ragione alla natura e pensare la realtà secondo le leggi della realtà medesima. 
Nel terzo capitolo, Parmenide l’universo uno infinito immobile, Montano prende in considerazione l’influenza del filosofo di Elea sul monismo naturalistico del Nolano. Bruno attribuisce a Parmenide – e non solamente a Melisso – la tesi infinitista, rintracciabile nell’affermazione del caposcuola eleate secondo cui l’essere è uno e in se stesso uguale. Infatti – spiega Bruno – «un ente finito, […] non è uguale da ogni parte, lo sarà solo al centro. Un ente infinito invece poiché ha il centro ovunque, sarà da ogni parte uguale e da ogni parte sferico» (p. 66). La concezione eleatica dell’Unum ens, infinitum immobile, cui Bruno aderisce, non comporta, del resto, la negazione della perenne mutabilità del tutto, della vicissitudine universale. Già Parmenide distingueva tra il piano dell’Essere (to eon), ingenerato e incorruttibile, immutabile e indivisibile, e quello degli enti (ta eonta), soggetti alla legge del mutamento e della molteplicità. La stessa epistemologia bruniana, basata sull’«omogeneità delle strutture dell’essere e del pensare rimanda chiaramente» (p. 69) – secondo Montano – ai noti frammenti 3 e 8 (vv. 34-36) in cui Parmenide afferma l’identità di pensiero ed essere.
Nel capitolo quarto, Il «divino» Pitagora, Montano sottolinea i punti di tangenza tra la concezione bruniana e la dottrina pitagorica, a partire dall’unità dei contrari – la serie dei numeri pari e dei numeri dispari che Pitagora risolve nella monade, l’origine parimpari di entrambi gli opposti. In essa Bruno riconosce l’unità della sostanza, della vita-materia infinita, sempre identica a se stessa. L’altra tesi bruniana che trova conferma nella dottrina pitagorica è l’infinità dello spazio. A differenza dell’infinitismo platonico – metafisico e ideale – quello pitagorico – fisico e cosmologico – rappresenta l’immagine stessa dell’universo. Il paradosso di cui Bruno si avvale nel De infinito, universo e mondi (1584) per dimostrare l’infinità del cosmo appare come «il calco quasi perfetto» del frammento di Archita di Taranto, secondo cui «se ci si trovasse all’estremità dello spazio, sarebbe assurdo affermare l’impossibilità di tendere oltre quella una mano o un bastoncino» (p. 100). Orfico-pitagorica è infine la dottrina della trasmigrazione delle anime, sostenuta da Bruno nello Spaccio de la bestia trionfante (1584) e nella Cabala del cavallo pegaseo (1585) in polemica con il principio socratico-platonico-cristiano dell’immortalità dell’anima individuale. 
Il capitolo quinto, Empedocle e “il problema della causa”, prende avvio dalla critica al concetto aristotelico di causa formale, inteso da Bruno come un principio «di natura logicistica e non naturalistica […], vale a dire una funzione mentale e non reale» (p. 112). Nel De la causa il Nolano nega il dualismo tra principio materiale e principio formale, e alla maniera di Empedocle identifica la forma con la vita che anima la materia stessa. Le quattro radici empedoclee risultano infatti animate «dall’interno da un impulso, da un impeto, dall’Agrigentino indicato con il termine horme» (p. 115). È l’horme che determina l’apparire – per aggregazione – e lo scomparire – per disgregazione – dei singoli enti particolari, prendendo – a seconda della funzione svolta – il nome di amicizia (philotes) o di contesa (neikos). Per sistemi cosmologici dinamici, come quelli di Empedocle e Bruno, il concetto di causa finale non può risiedere – osserva Montano – nel «compimento definitivo e appagante di un processo avente un principio e una fine» (p. 122), ma piuttosto nella ricchezza inesauribile delle infinite forme di esistenza che scaturiscono, «sempre più numerose per quantità e sempre più varie per foggia e figura» (p. 123), dalla comune materia-vita. 
Nel sesto e ultimo capitolo, Eraclito e la dialettica, l’autore si focalizza su quello che Michele Ciliberto ha definito “il cuore speculativo della filosofia di Bruno”, ovvero la dottrina dei contrari, tramite la quale il filosofo Nolano spiega la perenne mutabilità del tutto nei termini di un incessante passaggio da un opposto all’altro. Con gli antichi, Bruno interpreta i fenomeni della nascita e della morte, come aggregazione e disgregazione di composti, e non come passaggio dal non essere all’essere e dall’essere al non essere. Termine esplicito di riferimento nel De la causa, il logos eracliteo è l’unità del tutto, «pensata come radice unica, come principio indifferenziato, che accoglie in sé, e da sé emana, tutti i contrari e gli opposti» (p. 140). L’Efesino avrebbe colto, inoltre, l’intrinseca dinamicità dell’essere – espressa nell’idea del panta rei, e dal Nolano definita eterna mutazione o vicissitudine – pur avendo erroneamente concepito l’arche come una sorta di anima cosmica ordinatrice separata dall’elemento corporeo. Eraclitea suona infine la concezione aristocratica del sapere difesa da Bruno e la polemica contro i polloi, la moltitudine degli ignoranti ai quali si contrappongono i mercuri inviati dagli dèi. 
In conclusione, dall’analisi di Montano emerge chiaramente come al centro della riflessione bruniana stia costantemente la dottrina presocratica dell’hen kai pan, «dell’uno in tutto, dell’unica vita che scorre e dell’unica verità che brilla in tutto, anche nelle parti infinitesimali» (p. 127) – la “vilissima minuzzaria” di cui si parla nello Spaccio de la bestia trionfante. Secondo il parere di Montano i presocratici sono stati dunque per Bruno i «portatori di una stessa visione monistica, unitaria, infinitistica della realtà» (p. 131), di cui il Nolano si è appropriato con autonomia e originalità, dando così forma con la sua opera a un’“antiqua e nova filosofia”. 

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