Nel 2006, Alain Badiou, commemorando la figura di Jean Hyppolite, ha osservato che si trattava di un filosofo al quale era stato impedito di costruire fino in fondo quello che gli era possibile edificare a livello concettuale, non riuscendogli forse di elaborare quella negatività che sotterraneamente lo abitava. Il giudizio, che pure si presta ad esser interpretato come la constatazione d’una difficoltà a riconoscere Hyppolite come un pensatore originale, sembrerebbe soprattutto voler affermare, d’accordo con la lezione da questi professata, la possibilità dello scacco incontro al quale la riflessione quasi ineluttabilmente procede e rispetto al quale il discorso filosofico dovrebbe constatare la «propria impotenza a mettere a tema interamente il proprio progetto, senza tuttavia rinunciare a determinare le strutture dell’esperienza e delle scienze». La lunga frequentazione con l’opera di Hegel, scanditasi dapprima con il ponderoso commentario dedicato alla Phänomenologie des Geistes e quindi, nel 1953, con l’analisi della Wissenschaft der Logik, consegnata al volume Logique et existence (ora tradotto da Sandro Palazzo, autore pure d’una pregevole introduzione), era stata decisiva per il formarsi di tale convincimento. Hyppolite pervenne infatti ad interpretare la filosofia hegeliana – come si trae in particolare dalla relazione ch’egli lesse, pochi mesi prima di morire, durante i lavori del grande convegno sullo strutturalismo organizzato nel 1966 presso la John Hopkins University – come dominata da una profonda consapevolezza circa una mancanza di significato che investirebbe il significato stesso.
Sarebbe propriamente tale limitatezza a essere definita da Hegel – ricorda Hyppolite – “Differenza Assoluta” (absolute Unterschied), dovendosi in essa riconoscere il rapporto dialettico fra Logos e Natura, ovvero il manifestarsi del passaggio dal sensibile al senso, dall’intuizione immediata al significato pensato. Secondo quanto si afferma all’inizio di Logique et existence, «questi due momenti si confondono. Il sensibile si interiorizza, si fa essenza, l’essere diventa Logos», sicché «ciò di cui si parla e colui che parla si mostrano inseparabili». È in questa prospettiva che dovrebbe cogliersi il significato autentico dell’ontologia hegeliana, nel suo indicare unicamente il “senso” che s’impone allorché si compie il superamento della distinzione che vuole «il pensiero, come riflessione della propria identità, opporsi ai propri pensieri in quanto determinati, ed attribuire al loro contenuto una fonte estranea». Come ebbe a notare Gilles Deleuze, l’idea che Hyppolite sostiene in queste pagine è imperniata su di un pensiero totale che si conosce nella differenza interna dell’Essere che si pensa, e in virtù del quale «in un certo modo, il sapere assoluto è il più vicino, il più semplice, è qui». La dialettica, nel suo seguire il movimento del pensiero e dell’essere, lo ribadirebbe univocamente: essa non sarebbe altro che il «detto» dell’Essere, la sua propria conoscenza.
Nel capitolo intitolato “Proposizione empirica e proposizione speculativa”, Hyppolite rileva come il “detto” dell’ontologia hegeliana si coniughi con il valore di “esistenziale” conferito, nella Wissenschaft der Logik, alla nozione di categoria. Laddove Kant non sembra essere riuscito a superare il momento della coscienza in quanto tale, e dunque la scissione in intuizione e concetto, particolare e universale, la logica di Hegel trascorrerebbe da un piano «fenomenologico», dove resta centrale l’opposizione di intuizione sensibile e concetto, a un piano puramente ontologico, nel quale le categorie fungono da caratterizzazione dell’essere che rappresentano e al contempo da condizione di possibilità della sua comprensione. Da questo punto di vista – sostiene Hyppolite – Hegel considera le categorie come «generi dell’essere» o, meglio, egli unifica i due aspetti della categoria come genere dell’essere e funzione del pensiero. Il che è reso possibile dal costituire, nell’idealismo trascendentale, le categorie, non più l’espressione dell’«ente dinanzi alla coscienza», ma la sola «logicità dell’essere». Le categorie esprimerebbero dunque un’istanza della totalità, rispetto alla quale il continuo trascendersi dell’esistenza umana non sarebbe che un semplice momento.
Se il precipitato della meditazione heideggeriana – lo testimonia in misura decisiva il saggio Ontologie et phénoménologie chez Martin Heidegger pressoché coevo a Logique et existence – svolge un ruolo determinante rispetto all’esegesi che Hyppolite conduce della ontologia hegeliana, specie là dove egli assume l’esistenza umana solo in funzione del «Logos dell’Essere», occorre altresì constatare come ciò si coniughi con una più generale presa di distanza dalle interpretazioni di Hegel di impronta umanistica. La riflessione propria dell’umanesimo segnerebbe infatti quella «caduta nel “troppo umano”», che – nota Hyppolite – Hegel negherebbe risolutamente. Egli, nel suo sistema di pensiero, non sosterebbe che la progettualità umana sia l’Assoluto, come rivendicato da Marx, quanto che l’uomo «esiste come quell’esserci naturale in cui appare l’autocoscienza universale dell’essere». A questo riguardo, riecheggiando i motivi della diatriba che, nel 1946, aveva visto protagonisti Sartre ed Heidegger, le pagine finali di Logique et existence insistono sulla libertà come possibilità concessa all’uomo di vagare di determinazione in determinazione o di dileguare in quel nulla che non è fra il per sé e l’in sé, «ma è il nulla stesso dell’essere ovvero l’essere del nulla».
Diversamente da Bergson, per il quale la negazione non può prescindere da una spiegazione antropologica, Hegel, secondo Hyppolite, riporta il negativo nel cuore stesso dell’essere. Solo riconoscendo la possibilità propria dell’essere di recare al proprio interno la sua stessa negazione, può compiutamente intendersi l’immanenza dell’Assoluto, ovvero il suo «bastare a sé», in quanto dimensione in cui l’essere si mostra identico alla differenza che si compendia nella contraddizione. Questa, a sua volta, stabilisce il perimetro di un senso che deve necessariamente comprendere il proprio non-senso. Per Hegel – annota Hyppolite – ciò sta a significare l’ammissione di un’irrimediabile finitezza. Non a caso, per Michel Foucault, il confronto di Hyppolite con la riflessione hegeliana sarebbe stato ispirato dal tentativo di dare risposta all’interrogativo che chiedesse che cos’è la «finitudine filosofica».
Bordeggiando la logica hegeliana, l’unitotalità di un pensiero capace di pensarsi nel movimento della propria trascendenza “verticale” si rivelerebbe attraversata dalla inquieta mobilità del proprio dis-dirsi. Secondo Hyppolite, la filosofia deve essere sempre intesa come inseparabile dall’«ombra» che ne taglia, mutila e segmenta il senso sino a deformarlo, poiché solo così essa si compie come autocomprensione dell’essere: plenitudine assoluta nella quale al Logos non resta estraneo «l’anti-Logos».
Tale contraddizione induce a respingere l’ipotesi interpretativa, avanzata ad esempio da Jules Chaix-Ruy, che vorrebbe riportare la riflessione di Hyppolite a una sorta di irenismo nel quale troverebbe luogo una riconciliazione dell’uomo e di tutto ciò che esiste nella presenza serena dell’essere. Come si è ricordato, sarebbe se mai evidente l’influenza esercitata dall’ultimo Heidegger. Tuttavia, sebbene sia senz’altro vero che «l’immanenza integrale», alla quale si fa riferimento in Logique et existence, indica un circolo ontologico nel quale la fine, il sapere assoluto, è insieme punto di partenza e la soggettività ha nell’essere il proprio compimento, sembra doversi osservare che questo essere si mostra come arché già da sempre anarchica, non rilevando solo come fondamento e ragione, ma al contempo come abisso e insania, come caos con cui misurarsi e nel quale e sul quale esercitarsi a pensare.