lunedì , 30 Dicembre 2024
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[:it]66. Recensione a: Carmine Di Martino, Figure della relazione. Saggi su Ricoeur, Patocka e Derrida, Edizioni di Pagina, Bari 2018, pp. 114. (Valentina Surace)[:en]66. Review of: Carmine Di Martino, Figure della relazione. Saggi su Ricoeur, Patocka e Derrida, Edizioni di Pagina, Bari 2018, pp. 114. (Valentina Surace)[:]

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Come già preannunciato nel titolo, al centro di quest’ultimo lavoro di Di Martino c’è il tema della relazione inter-umana, quella costitutiva relazionalità che non solo definisce originariamente lo statuto dell’umano come già da sempre in debito nei confronti dell’altro, ma che pure ne impedisce la chiusura in sé e l’appropriazione di sé, l’acquisizione di un’identità intesa come un dato sostanziale conquistato una volta per tutte, e non come un percorso sempre aperto (all’altro) di identificazione, che, allo stesso tempo, è un processo di alterazione. Se Heidegger, in celebri passaggi di Sein und Zeit, aveva riconosciuto l’originarietà del con-esserci (Mit-Dasein), ossia il fatto che il Dasein si trovi ad essere già da sempre in relazione con gli altri Dasein, è mettendosi, ciascuno a suo modo, sulla via di questo sentiero interrotto che, secondo la penetrante lettura avanzata da Di Martino, tre suoi “eretici” eredi come Ricœur, Patočka e Derrida provano ad aprire originali prospettive nella direzione di un pensiero dell’alterità.
Come mostra Ricœur, attraverso un’ermeneutica fenomenologica dell’ipseità – elaborata in Sé come un altro e in Percorsi del riconoscimento –, a cui è dedicato il capitolo d’apertura, l’identità implica l’alterità, l’una passa nell’altra, ovvero tra di esse vi è una relazione costitutiva e complementare. Prendendo le distanze dalle filosofie dell’ego e opponendo all’identità immutabile dell’idem (il medesimo), l’identità mobile dell’ipse, che può essere colta non già in un’auto-(ap)percezione, ma in una hegeliana-honnethiana lotta per il riconoscimento, Di Martino mette in luce come, secondo Ricœur, il sé si riveli un essere-affetto, dipendente dall’altro, ed è proprio tale sua passività ad impedirgli di porsi come “fondamento”. Del tripode ricœuriano della passività (corpo, estraneo, coscienza), Di Martino sceglie significativamente di soffermarsi sulla figura dell’altro da sé, considerando che «non vi sarebbe costituzione del corpo proprio né formazione della coscienza, nel senso del Gewissen, senza l’alterità inerente alla relazione dell’intersoggettivi-tà» (p. 29). Come evidenzia la teoria psicoanalitica (Freud, Spitz, Winnicott), a cui si ispira Honneth, il divenire-sé comincia dall’essere-riconosciuto innanzitutto nella relazione affettiva tra madre e figlio; tale teoria dimostra, secondo Di Martino, che il divenire-umana della vita dipende dall’altro, dal desiderio dell’altro. La relazione duale primordiale permette al bambino di intrapren¬dere il suo cammino di umanizzazione: infatti, in una dialettica di dissimmetria e reciprocità, l’altro – come asserisce Ricœur –, attraverso l’accoglienza e la cura, mi costituisce responsabile, cioè capace di rispondere.
Anche per un altro originale erede di Heidegger, ovvero Jan Patočka, l’esser-gettato dell’uomo nel mondo corrisponde all’essere-accettato o accolto, come rileva Di Martino nel secondo capitolo. Se nella fase inaugurale della vita il bambino perviene a se stesso rispecchiandosi nel primo altro con cui entra in contatto, la madre, nelle fasi successive per identificarsi dovrà continuare a passare attraverso l’altro. Ciò significa che non vi è primariamente un soggetto isolato che getta un “ponte” o stipula un “patto” (Hobbes) con altri, poiché l’esserci è originariamente Mit-Dasein. È Heidegger a riconoscere il carattere originario del con-esserci, benché identifichi la relazione con gli altri con la dimensione quotidiana della chiacchiera, dell’equivoco e della curiosità, con l’impersonalità del “si”, considerando l’essere-con come quella dimensione inautentica che distrae l’esserci dal suo avere da essere. Secondo Heidegger, invece, il Dasein attinge l’autenticità della propria esistenza soltanto attraverso la solitudine assoluta e angosciata della decisione anticipatrice della propria morte. Tuttavia, asserire la singolarità, la “miità”, di ognuno non significa dover considerare secondaria o peggio inautentica la relazione con l’altro. Patočka, agli occhi di Di Martino, ha il merito di mostrare, anche attraverso il suo impegno politico, che la “vita nella verità” – l’esistenza autentica in termini heideggeriani – non isola, ma apre al rapporto con altri. Di Martino esplicita, con la sua consueta chiarezza, i motivi fondamentali che rendono interessanti le riflessioni del filosofo ceco, ovvero il fatto che la “vita nella verità” non solo non sia considerata antitetica all’essere-con, ma anzi sia identificata nella condivisione della vita dell’altro, fino al sacrificio. Patočka rintraccia questa forma di condivisione, addirittura tra nemici, nell’esperienza del fronte durante la prima guerra mondiale e le dà il nome di “solidarietà degli scossi”. Si tratta di una forma pre-politica di comunità, che, sottolinea Di Martino, porta con sé una promessa di trasformazione giuridico-politica, concepita come un movimento incessante, alimentato da un essere-con l’altro, che non nasce hobbesianamente dalla paura, ma dall’essere-solidali.
Come si evince dal terzo capitolo, una “faglia” separa anche il pensiero di Derrida dal solipsismo di Heidegger, che, preoccupato di garantire all’esserci un’ontologica autotelicità, ignora la sua costitutiva eteronomia. Derrida, sulla scorta di Levinas, capovolge la gerarchia tra apertura e ospitalità, nel senso che considera l’accoglienza dell’altro (genitivo soggettivo e oggettivo) precedente rispetto alla costituzione del Dasein come essere-nel-mondo. Di Martino nota giustamente che Derrida, con la sua genealogia della soggettività, non intende «bilanciare “eticamente” la decostruzione» (p. 62), quanto piuttosto mostrare che il soggetto si costituisce a partire da una soggezione, da un assoggettamento, da un essere-soggetto. Una legge di socialità originaria, la legge dell’ospitalità, rivela il soggetto come già da sempre ex-appropriato e ingiunge di lasciar-venire l’altro, di lasciarlo-essere altro. Se è impossibile una traduzione immediata di questa ospitalità incondizionata in termini giuridico-politici, d’altra parte essa ingiunge in ogni singola situazione di “fare l’impossibile”, ovvero di “negoziare” l’incondizionato con il condizionato, il che non va inteso nel senso del compromesso o della conciliazione di istanze che devono permanere nella loro eterogeneità.
Ancora a Derrida – un autore di cui Di Martino si è accreditato come uno dei più autorevoli interpreti – sono dedicati gli altri due capitoli che concludono il volume. Innanzitutto, soffermandosi sulla nozione di “autoimmunità”, ovvero sulla possibilità per il vivente di distruggere ciò che lo protegge dall’intrusione dell’estraneo, ricorrente nell’ultima produzione derridiana, a partire da Spettri di Marx, Di Martino nota come essa sia stata “preparata” da tutta la riflessione precedente e confermi la legge della différance. Per la strana logica autoimmune un io vivente – così come un corpo politico – per non morire in anticipo deve, paradossalmente, abbassare le proprie difese, aprirsi all’evento dell’altro, poiché la relazione con l’alterità, che espone il vivente alla minaccia della morte, è allo stesso tempo ciò che lo fa vivere. L’autoimmunità è, quindi, un’altra “leva” per decostruire una concezione metafisica, vitalistica della vita, intesa come l’opposto della morte, in nome della legge della différance, “la legge de la-vita-la-morte”, che non ha nulla di mortifero, ma svela che fin dall’inizio l’io vivente è contaminato, espropriato dall’altro, auto-immune. Vivere, come si ricava anche dalle riflessioni derridiane sul dualismo pulsionale di Freud, è allora “sopra-vivere”, esporsi all’altro, alterarsi e contaminarsi. Secondo Di Martino «il discorso su la-vita-la-morte, sulla sopra-vivenza, ha il carattere di un filo conduttore: Derrida non ha mai parlato d’altro» (p. 97), tant’è che, persino quando si è occupato di scrittura, lo ha fatto evidenziando che il senso vivo non può accadere se non grazie al suo altro, il segno morto.
Di Martino individua, infine, nel quinto ed ultimo capitolo, un “legame singolare” tra autoimmunità e messianicità, tra pensiero del vivente e pensiero dell’evento, che scompiglia la logica tradizionale del possibile. Eventi quali il dono e il perdono, l’ospitalità e la democrazia sono figure dell’impossibile, poiché le loro condizioni di possibilità sono condizioni di impossibilità. Da una parte, infatti, l’esperienza dell’evento implica che vi sia riconoscimento, dunque un orizzonte di senso, dall’altra, però, l’evento, come l’arrivante assoluto, nella sua singolare inanticipabilità, infrange l’orizzonte di attesa. Questa attesa senza orizzonte di attesa, cui Derrida dà anche il nome di “messianico senza messianismo”, va intesa come la temporalità strutturale e universale del vivente, ovvero come una “protenzione” – così la chiama husserlianamente Di Martino – esposta e aperta all’altro, una vulnerabilità assoluta, che, come si è visto, per Derrida indica il carattere autoimmune del vivente.
Che tutte le questioni sollevate in questo volume abbiano rilevanti ricadute sul piano etico e politico di urgente attualità, Di Martino non manca di ricordarcelo, evocando, nell’Introduzione, il contesto storico-epocale dell’odierno imponente fenomeno migratorio, che esige una messa in questione delle categorie attraverso le quali pensiamo la relazione con gli altri, a partire dal concetto di ospitalità. Insieme, sempre, al tempo stesso, promessa e minaccia, la venuta dell’altro espone al rischio assoluto: non possiamo negarlo; tuttavia, evitare di correrlo non solo è, in ultima istanza, impossibile, ma di certo costituisce il male peggiore. Innalzare barriere immunitarie, invece che abbassarle, perseguire forme di chiusura autarchica, non può che tradursi inevitabilmente nel darsi la morte per un vivente già da sempre in relazione con gli altri e la cui vita è costitutivamente “intaccata” dall’altro. “Rigettare” quell’altro che dovremmo invece riconoscere come nostro ospite, si trasforma sempre, alla fine, in un processo auto-distruttivo.
Uno dei pregi non secondari di queste riflessioni sulla costituzione ‘relazionale’ dell’io consiste proprio nell’aver saputo coniugare l’acume teoretico di un’analisi sempre rigorosa, che si confronta con alcuni dei più significativi filosofi del secondo Novecento, con l’assunzione della portata etica e politica di un pensiero che non teme di raccogliere le sfide ineludibili del nostro tempo.

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