T.S. Eliot, nel suo saggio del 1948 From Poe to Valéry, individuava in Baudelaire, Mallarmé e Valéry i più importanti epigoni di Edgar Allan Poe. Malgrado la scarsa considerazione di cui l’estetica di Poe aveva goduto in ambiente anglosassone, secondo Eliot erano questi tre autori francesi ad aver riabilitato la teoria della composizione dell’autore di The Raven. Essi formavano, così, una vera e propria corrente, che prendeva le mosse dal controverso The Philosophy of Composition. Non da un’opera poetica, bensì da uno scritto teorico di Poe deriverebbe, allora, il risvolto più interessante della sua ricezione in Francia. Dal discorso di Poe sul processo di composizione che lo aveva guidato nella stesura di The Raven, Eliot credeva fosse scaturito «il più originale sviluppo di un’estetica del verso condotta in questo periodo come un intero» (T.S. Eliot, From Poe to Valéry, in «The Hudson Review», vol. 2, n. 3, autunno 1949, p. 329). Il riferimento è alla crescente attenzione dei poeti all’esame della loro attività di scrittori, all’indagine dei modi in cui chi scrive opera. In breve, Eliot intende stabilire che dal saggio di Poe si andò costituendo quella tendenza, culminata con Valéry, a formulare una teoria poetica da parte dei poeti stessi. Gli argomenti che portavano il poeta nordamericano a pronunciarsi a favore del primato della composizione sull’entusiasmo avevano permesso a Baudelaire, Mallarmé e Valéry di osservare se stessi durante la scrittura e di suggerire che «l’atto di composizione è più interessante del poema che ne risulta» (p. 340).
Danilo Manca, nel suo studio La disputa su ispirazione e composizione. Valéry fra Poe e Borges (ETS, Pisa 2017), si interroga su questa tendenza critica della costellazione individuata da Eliot per comprendere quale dialettica filosofica fondi l’attività poetica. L’assunzione di partenza del saggio, che Manca dichiara già nella Introduzione, è il senso ampio in cui deve essere inteso il termine «poeta» (p. 9). Dal greco poietes, esso non indica soltanto chi compone uno scritto in versi o in prosa, ma, in generale, colui che fa, che produce un’opera: in breve, uno scrittore. L’analisi della forma che la secolare disputa tra ispirazione e composizione assunse nella corrente Baudelaire-Mallarmé-Valèry (e Eliot) può fornire allora buone indicazioni a chi si interroga, dal punto di vista teoretico, sulla meccanica dello scrivere. Manca raccoglie, in questo senso, il proponimento che già Derrida aveva riconosciuto in Valéry, ossia di ricordare «al filosofo che la filosofia si scrive. E che il filosofo è filosofo in quanto oblia questo fatto» (J. Derrida, “Qual quelle”. Le fonti di Valéry, in Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, p. 373). Il filosofo e il poeta sono allora accomunati non soltanto dalla loro attività di scrittori, ma soprattutto dalla comune pretesa di osservare il loro stesso processo compositivo. Del resto, ricorda Manca, la disputa tra ispirazione e composizione si trova accostata alla contesa tra filosofia e poesia già in tempi lontani. Un testo “ibrido” come la Repubblica platonica, che veicolava un contenuto filosofico in forma di dialogo, è un esempio palese di questo accostamento. Anche nel Timeo Platone si riferisce alla disputa, quando distingue lo stato sognante della divinazione notturna da quello calcolato e razionale della veglia. Altre indicazioni si trovano nei versi conclusivi del Simposio, ove si celebra il potere riunificante dell’attività filosofica, che completa quella artistica con la sua capacità riflessiva (pp. 139-142).
Non deve stupirci, allora, che già in Sur la technique littéraire Valéry riconosca a Poe un’abilità filosofica, oltre che matematica, proprio mentre commenta The Philosophy of Composition (p. 51). La capacità di Poe di esprimere poeticamente la sua ispirazione viene fatta derivare da Valéry proprio dalla sua filosofia della composizione calcolata. L’irruenza dell’enthousiasmos di platonica memoria viene, cioè, connessa alla tendenza raziocinante a cristallizzare il messaggio poetico nel calibrato esercizio del verso. L’aspetto filosofico dell’indagine di Poe risiede, per Valéry, nell’attenzione dell’autore al meccanismo di canalizzazione dell’ispirazione, che trova espressione in una legge poetica.
Dall’analogia che Valéry costruisce tra l’attività dello scrittore e quella del musicista emerge chiaramente, secondo Manca, che è l’incontro tra sensibilità e ragione a rappresentare il nucleo principale dell’atto compositivo. Perché dall’ispirazione possa scaturire un’opera d’arte, allora, lo scrittore deve affiancare al suo animo preso da entusiasmo «un freddo saggio, quasi uno studioso d’algebra, al servizio del sognatore raffinato» (P. Valéry, Sur la technique littéraire, in OEuvres, Gallimard, Paris 1960, v. II, pp. 1830-1831). Per far questo, ci spiega Manca, lo scrittore è chiamato a conciliare due aspetti del suo stesso comporre e, di conseguenza, a osservare il suo stesso procedere poetico. L’opera d’arte riflette allora l’attività filosofica che l’autore intraprende quando coniuga lo slancio dell’entusiasmo con la staticità della forma. Manca, attraverso Valéry, ci dimostra che questo è possibile soltanto in modo consapevole. Il portato genuinamente filosofico di questa notazione emerge proprio nella scoperta dell’attitudine «critica» dello scrittore, che trova il suo slancio nell’ispirazione per poi affidarsi alla composizione e che è chiamato ogni volta ad avvicinare l’aspetto più immediato e spontaneo del suo lavoro a quello meditato, faticoso, regolato.
Da queste poche frasi si può forse già immaginare quale ruolo capitale abbia la riflessione di Valéry nel contesto della ricezione di Poe. È, infatti, convinzione di Eliot che, nell’ambito della corrente poetica individuata in From Poe to Valéry, all’autore dei Cahiers fosse ascrivibile il merito di aver interpretato lo scritto di Poe al massimo grado di consapevolezza. Per Eliot, Baudelaire e Mallarmé avevano cercato nel saggio di Poe indicazioni fondamentali, che riguardavano la personalità del poeta e la sua tecnica del verso. Essi non avevano, tuttavia, colto che l’aspetto innovativo del messaggio di Poe risiedeva interamente nell’invito a osservarsi comporre, a praticare la scrittura come indagine attiva e costante su di sé. Valéry è allora «in assoluto il più conscio del suo fare» (T.S. Eliot, From Poe to Valéry, cit., p. 340). Manca sembra, nel suo bel libro, porsi ancora oltre Eliot nella misura in cui associa questa pratica conscia della scrittura alla figura del filosofo, del critico. Del resto, lo stesso Valéry riconosce nei suoi predecessori un «demone critico». In Situation de Baudelaire, ricorda Manca, Valéry dichiara che la spinta contenuta nello scritto di Poe si rifletteva in Baudelaire proprio nella sua tendenza a valorizzare l’atto sommamente critico del comporre.
Valéry appare allora, potremmo dire, il più conscio in assoluto del portato filosofico di questa dialettica compositiva: egli è riuscito a riscontrare il primato della composizione anche dove questo appariva, per molti versi, ancora inconscio. Per questo, Manca individua in un frammento dei Cahiers la formula chiara della lettura filosofica del processo di scrittura. Valéry riconosce uno stato poetico (leggi: ispirato) come origine del processo di composizione, definendo così l’atto di scrivere nella volontà del poeta di permanere in quello stato, condensandolo in un’opera d’arte che si avvicini il più possibile alla perfezione. Scrivere significa rendere artificialmente ciò che è spontaneo, sommamente irregolare e fragile. Si capisce, allora, cosa Manca con Valéry intenda quando parla di «primato» della composizione sull’ispirazione. Non si tratta di una teoria della soppressione dell’ispirazione. Al contrario, il processo compositivo ha origine proprio dall’impegnarsi dello scrittore a conservare il piacere dello «stato poetico» e dal suo tenace tentativo di far specchiare la sua ispirazione nell’opera d’arte compiuta. Per Manca, all’origine del primato della composizione sull’ispirazione sta proprio il desiderio impossibile di conservare l’ispirazione. Lo scrittore scopre che il suo alleato migliore in questa impresa è «l’abilità compositiva», ossia «esercizio, applicazione, intelligenza, riflessione, auto-critica»; in breve, l’esplorazione volontaria e sistematica della propria «sensibilità» (p. 81).
Si è già suggerito che l’analisi di Manca può essere pensata come una prosecuzione della tesi di Eliot sulla costellazione Poe – Baudelaire – Mallarmé – Valéry. Il nostro autore riconosce in Valéry e nella sua teoria del comporre consapevole non soltanto l’acme di una corrente della letteratura. Manca individua in Valéry la tendenza ad avvicinare il procedere del poeta con quello del filosofo, accomunati dal loro osservarsi mentre scrivono. Si tratta di un’intuizione importante, in quanto ci consente di comprendere che alla base del processo di scrittura non risiede una mera preminenza della composizione sull’ispirazione o viceversa, ma piuttosto il «conflitto dialettico» (p. 160) tra loro, che dà luogo, tra l’altro, alla tendenza auto-critica dello scrittore. L’indagine di Manca non si arresta, tuttavia, a questo pur considerevole risultato. Considerare gli aspetti fondamentali della teoria valéryiana sul portato filosofico dell’esame del processo di composizione conduce, infatti, a pensare che tale portato non si sia esaurito nell’opera dell’autore dei Cahiers. Anche Eliot, nel saggio già citato, immaginava che qualcuno avrebbe ancora potuto porsi nel solco di Valéry, assumendo l’eredità della sua riflessione, proponendosi di scoprirne gli ulteriori risvolti e, infine, superandola. Manca sostiene che a cogliere la «sfida» pronunciata da Eliot fosse stato Borges, già tre anni prima di From Poe to Valéry.
Lo scrittore argentino fu un vivace lettore di Valéry. Manca ricorda che Borges interpellava la teoria della composizione valéryiana proprio quando si interrogava sul proprio rapporto con la lettura e la scrittura. Risulta preziosa, in questo senso, l’analisi sulla attività del traduttore, che Borges fornisce in esergo alla traduzione spagnola di Le cimetiére marin a opera di N. Ibarra, in cui già si scorge l’idea, derivata da Valéry, della necessità di far trasparire nell’opera il processo compositivo. Non è un caso, allora, che l’aspetto di maggiore originalità che Borges apporta alla corrente estetica in esame sia proprio l’ingresso della figura del lettore nella disputa tra ispirazione e composizione. Borges, spiega Manca, produce il suo superamento di Valéry costituendosi in primis come suo lettore e solo in seguito come autore a sua volta (pp. 84-85). Il dialogo con Valéry impregna molte opere di Borges (Manca esamina con grande precisione quella contenuta in Pierre Menard, autor del Quijote) e motiva anche la sua lettura del rapporto tra ispirazione e composizione. Borges raccoglie, infatti, l’idea di continuità tra il processo di composizione e l’entusiasmo, secondo cui il primo risulta proprio dalla pretesa di far durare il piacere dell’ispirazione. Ma c’è di più. Borges amplia e radicalizza la concezione di Valéry quando insiste sull’analogia tra lo «stato poetico», già riconosciuto nei Cahiers, e l’attività di lettore. Chi altro sono, dunque, gli autori ispirati se non «i lettori dell’ispirazione donata dalle Muse»? (p. 105).
Il ruolo di primo piano dell’attività del lettore era già stato riconosciuto da Valéry a Mallarmé, l’«autore difficile» (P. Valéry, Prefazione a Svedenborg di Martin Lamm, in OEuvres, cit., p. 639) in grado di stimolare nel suo lettore un risveglio, un sentimento di profonda curiosità. Borges comprende che la sua attività di scrittore e, possiamo dire, la sua attività di osservarsi scrivendo procede essenzialmente dal suo essere in primo luogo un lettore. Come in Valéry la composizione si fa strada dallo slancio dell’ispirazione, in Borges lo scrittore fa derivare la sua attività dal suo originario stimolo a leggere. In altre parole, il Borges scrittore è sempre originariamente un lettore in quanto coglie il lascito di altri autori e lo interpreta, lo amplia o, stando a Manca, lo «trasfigura» (p. 109). La trasfigurazione, allora, che Borges effettua dell’opera di Valéry consiste nel suo esplorare la persona del lettore che è anche scrittore e, infine, nel far apparire il suo personaggio-lettore in ciò che scrive.
L’operazione di Borges, «esploratore sistematico della genialità e dell’irrazionalità» (p. 160) nasce proprio da un dialogo con quel Valéry appassionato di «intelligenza e capacità razionali». Il risultato più importante dello studio di Danilo Manca risiede nella messa in luce di questa continuità tra l’aspetto entusiastico e quello calcolato del processo compositivo, che ricalca la reciproca azione di genialità e intelligenza, di Borges e Valéry. Manca ci insegna con il suo profondo saggio che è nel conflitto dialettico tra componenti a tutta prima opposte che dobbiamo riconoscere lo stimolo a scrivere, a leggere, a fare poesia e filosofia. Con la sua ispirata e metodica ricognizione della corrente che da Poe arriva a Eliot, passando per Valéry e Borges, Manca dimostra che la filosofia può trovare nella poesia un valido alleato nel faticoso percorso di comprensione di sé.