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81. Recensione a: Roberta Corvi, Ritorno al pragmatismo. L’alternativa Rorty – Putnam, Mimesis, Milano-Udine 2017, pp. 168. (Claudio Davini)

Negli ultimi anni, in seguito a decenni di colpevole indifferenza, il pragmatismo ha iniziato a suscitare interesse anche al di fuori della sua terra natia, gli Stati Uniti d’America. La rinnovata attenzione nei confronti di questa importante corrente filosofica, che nel secondo dopoguerra era stata relegata ai margini dell’attività accademica a causa del ruolo preponderante che la filosofia analitica era man mano venuta ad assumere, è testimoniata sia dalla riproposizione editoriale di alcuni suoi classici sia dal fiorire di studi che la riguardano, ed è probabilmente dovuta alla convinzione che il pragmatismo, data la sua spiccata e originaria vocazione sociale, possa contribuire non soltanto alla risoluzione dei problemi filosofici che attanagliano gli studiosi ma anche alla possibilità di rinvenire una soluzione per le pressanti difficoltà che la società civile occidentale si trova attualmente a dover fronteggiare. Il prezioso volume di Roberta Corvi, Ritorno al pragmatismo. L’alternativa Rorty – Putnam, si inserisce perfettamente nel canone di questo redivivo interesse verso il pragmatismo, una filosofia che ha attraversato, dopo i suoi esordi ottocenteschi, l’intera storia del pensiero contemporaneo. E le questioni affrontate dall’autrice, pur potendo inizialmente sembrare di natura marcatamente teorica, non si limitano certo a un esercizio di sola interpretazione filosofica, a meno di non ritenere che sia una questione esclusivamente teoretica se la nostra società «possa evitare uno scetticismo morale corrosivo senza ripiombare nell’autoritarismo morale» (H. Putnam, Il pragmatismo. Una questione aperta, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 6).
Com’è noto, il pragmatismo si distingue da altri stili di pensiero per il fatto di aderire alla cosiddetta massima pragmatica, un criterio di significato formulato da Peirce nel saggio How to Make Our Ideas Clear, pubblicato nel 1878 sul Popular Science Monthly. Stando a questo principio, per comprendere realmente l’oggetto della nostra indagine è necessario «considerare quali effetti, che possono concepibilmente avere portate pratiche, noi pensiamo che l’oggetto della nostra concezione abbia» (C.S. Peirce, Come rendere chiare le nostre idee, Utet, Torino 2014, p. 19). Tuttavia, il senso di questa massima cambia radicalmente a seconda del significato che viene attribuito ai termini “effetti” e “portate pratiche”: infatti, se «per effetti pratici Peirce intendeva quelli che lo scienziato prevede e produce in laboratorio, […] per James, invece, qualsiasi azione al di fuori delle rigorose procedure scientifiche può confermare la verità di un’ipotesi» (R. Corvi, op. cit., p. 18). E ciò significa che il pragmatismo non costituì mai, sin dagli albori, una dottrina unitaria – come peraltro riconobbero immediatamente due importanti studiosi quali Howard Mounce e Arthur Lovejoy. Ben consapevole di tutto questo, e pure del fatto che diversi sono stati gli esiti dei percorsi filosofici che si sono via via diramati dal comune punto di partenza, Roberta Corvi prende in considerazione, nel suo studio, le posizioni di due fra i più noti e dibattuti filosofi americani: Richard Rorty e Hilary Putnam, esempi paradigmatici di differenti «tipologie temperamentali di pensatore neopragmatista» (G. Marchetti, Introduzione a Id. (a cura di), Il neopragmatismo, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. XXII). Ed è proprio da un interrogativo sul senso del pragmatismo contemporaneo, cioè su «che cosa [significhi] essere pragmatisti oggi» (R. Corvi, op. cit., p. 9), che ha preso le mosse l’itinerario percorso da questa monografia. Una domanda assai urgente, invero, dal momento che a tal proposito non sembra affatto regnare alcun genere di unanimità.
Per scandire questo itinerario, Roberta Corvi fa uso di una strategia assai fruttuosa: quella di mettere il lettore immediatamente di fronte alla teoresi, senza troppo attardarsi nella sola ricostruzione storiografica delle posizioni filosofiche prese in esame. Per far questo, l’autrice non rinuncia a utilizzare un’ampia varietà di citazioni, citazioni che appunto contribuiscono a orientare più efficacemente la lettura, facilitando sia la contestualizzazione dei vari sviluppi del pragmatismo sia l’avvicinamento alla linea teorica Rorty-Putnam, argomento principe di questo scritto. Per quanto riguarda la struttura del volume, all’indagine sulle origini del neopragmatismo è dedicato il primo capitolo, intitolato “Il contesto del pragmatismo contemporaneo”. Lì, nonostante Roberta Corvi indugi inizialmente sul debito intrattenuto da Mead, Lewis, Hook e Morris con l’esperienza del Metaphysical Club – «un gruppo di giovani uomini della Vecchia Cambridge […] che era solito riunirsi a volte nel mio studio e a volte in quello di William James» (Peirce, 1906: CP 5.12), com’ebbe a scrivere Peirce in tarda età –, il filo dell’argomentazione conduce quasi subito alla descrizione di un momento cardine per il prosieguo dell’avventura filosofica del pragmatismo: l’incontro con la filosofia analitica, avvenuto negli anni ’30 del secolo scorso. Un incontro, sottolinea l’autrice, le cui vicende sono assai più complesse di quanto non si sia sostenuto in passato, dal momento che non si può certo parlare di una scomparsa del pragmatismo dovuta all’inarrestabile avanzata del positivismo logico. Infatti, come ha mostrato Rosa Maria Calcaterra in Pragmatismo e filosofia analitica: differenze e interazioni, i rapporti fra le due scuole non sono di mera contrapposizione, «essendo buona parte delle idee pragmatiste […] compatibili con le idee di fondo della tradizione analitica» (M. Marsonet, La verità fallibile. Pragmatismo e immagine scientifica del mondo, Franco Angeli, Milano 1997, p. 15). Per citare le parole di Roberta Corvi (op. cit., p. 31), «si può dire che, nonostante le indubbie divergenze, probabilmente il pragmatismo e la filosofia analitica sono accomunati da qualcosa che ha reso possibile uno scambio»; ed è per questo che nel seguito del capitolo l’autrice si sofferma su alcuni importanti filosofi americani – in particolare Quine, Sellars e Davidson – che si sono trovati al crocevia fra pragmatismo e filosofia analitica e che, grazie alle loro critiche al soggettivismo, al rappresentazionalismo e all’empirismo, hanno preparato il terreno per la cosiddetta svolta pragmatista di Rorty.
E proprio del pensiero di quest’ultimo autore si occupa il secondo capitolo del volume, intitolato “Rorty: l’abbandono della filosofia analitica”. Qui, tratteggiando con dovizia di particolari il percorso che ha condotto Rorty ad abbandonare il ruolo di alfiere della filosofia analitica per divenirne in seguito uno degli avversari più agguerriti, Roberta Corvi mostra adeguatamente come nella riflessione del filosofo newyorkese si possano riscontrare le vestigia di una nuova concezione della verità e della razionalità. Una nuova concezione che, invero, fa a meno della secolare e ben nota immagine della mente come «[…] Specchio della Natura senza ombre» (R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986, p. 289), di cui «la “svolta linguistica” altro non è che l’ultimo rifugio» (R. Corvi, op. cit., p. 68). Stando al parere di Rorty, infatti, la concezione della mente come specchio risale anzitutto a Socrate e ad Aristotele, domina in seguito l’intera storia della filosofia moderna attraverso la mediazione di Cartesio – secondo il quale «le rappresentazioni sono nella mente e l’occhio interiore le esamina nella speranza di trovare qualche garanzia di veridicità» (p. 69) – ed è infine riproposta nei suoi lineamenti fondamentali dall’atteggiamento rappresentazionalista della filosofia analitica, per cui la conoscenza non è costituita che dalla rappresentazione di oggetti, o meglio, dalla rappresentazione del mondo – concezione, questa, da cui peraltro trae origine la teoria della verità come corrispondenza. Ora, è seguendo la lezione pragmatista di Dewey – come suggerisce Roberta Corvi nel prosieguo del capitolo, accennando inoltre con le dovute precauzioni interpretative all’influenza di Sellars e Davidson, i quali hanno conservato l’ispirazione pragmatista pur avendo ricevuto una formazione più spiccatamente analitica – che Rorty inizia a rifiutare l’idea che il soggetto conoscente sia uno spettatore neutrale di fronte alla realtà e, di conseguenza, a rigettare l’assurda posizione per cui laddove non vi siano oggetti cui corrispondere non vi sarebbe nemmeno alcun genere di razionalità. Tuttavia, precisa in maniera assai perspicua l’autrice, non è affatto intenzione di Rorty gettar via il bambino insieme all’acqua sporca: difatti, la ricusazione del rappresentazionalismo e dunque della filosofia analitica intesa come concezione basata sulle rappresentazioni linguistiche non vuole certo implicare, da parte dello stesso Rorty, l’abbandono del linguaggio, «che mantiene una indubbia centralità, pur cambiando ruolo, in quanto diviene imprescindibile come strumento della conversazione» (p. 69). Ed è esattamente in questo senso che ci troviamo di fronte a una nuova concezione della verità e della razionalità, dal momento che la conoscenza non si configura più come il risultato di una relazione rappresentativa fra la mente e l’oggetto, ma consiste piuttosto nella capacità di rinvenire un accordo attraverso il linguaggio.
Un punto di vista, quest’ultimo, che non ha certo mancato di ingenerare problemi e difficoltà, come vedremo in seguito e come d’altronde più volte ha fatto notare Putnam, filosofo su cui si concentra invece il terzo capitolo del volume, intitolato appunto “Putnam: filosofo ‘senza aggettivi’”. Nel caso di quest’ultimo pensatore – ci ricorda Roberta Corvi – «il passaggio dalla filosofia analitica al pragmatismo avviene in concomitanza con la riflessione sul realismo» (p. 96), ed è per questo motivo che l’autrice si dedica a ripercorrere, opportunamente e in maniera molto scrupolosa, le tappe che hanno portato Putnam a rigettare il realismo metafisico per abbracciare il cosiddetto realismo del senso comune. Ora, la caratteristica tipica delle varie forme di realismo metafisico è l’affermazione secondo cui esisterebbe una realtà indipendente dal pensiero e di cui sarebbe possibile fornire un’unica descrizione vera, e questa è precisamente l’opinione che Putnam ha sostenuto fino al 1976 – ossia, quando ancora riteneva affascinante quella forma di realismo perché sembrava suggerire che la soluzione ultima di tutti i problemi filosofici consistesse «nel costruire una migliore immagine scientifica del mondo» (H. Putnam, Rappresentazione e realtà, Garzanti, Milano 1993, p. 140). Ma le critiche di Dummett nei confronti delle teorie non epistemiche della verità e la posizione di Goodman secondo cui «il mondo è suscettibile di molte descrizioni calzanti a seconda dei nostri interessi o scopi […]» (R. Corvi, op. cit., p. 100) influenzarono a tal punto la riflessione di Putnam che egli iniziò a scorgere il problema già intravisto da Rorty e menzionato in precedenza: se l’unica descrizione vera del mondo è quella offerta dalla scienza, i giudizi di valore non possono che rimanere esclusi dall’alveo della razionalità. Eppure, nonostante la medesima preoccupazione – al cui approfondimento sono dedicate molte delle pagine di questo scritto –, i due filosofi hanno intrapreso percorsi teorici assai differenti, per non dire quasi del tutto antitetici.
E proprio il quarto e ultimo capitolo del volume offre un attento resoconto delle posizioni dei due pensatori americani, anche se un simile raffronto – avverte Roberta Corvi – si limita «alle ragioni della loro adesione al pragmatismo e ai motivi del loro dissenso su alcune questioni di carattere epistemologico, senza approfondire la pur interessante questione che riguarda la correttezza dell’interpretazione che i due filosofi propongono dei principali esponenti del pragmatismo […]» (p. 9). A tal proposito, le divergenze fra Rorty e Putnam emergono emblematicamente nelle rispettive riflessioni sul concetto di verità: infatti, mentre entrambi si dimostrano favorevoli ad abbandonarne una nozione corrispondentista – cioè una nozione ancorata a quel realismo metafisico da cui intendono discostarsi, come mostra a più riprese l’autrice –, essi non concordano affatto sullo statuto da attribuire a quella medesima nozione. Putnam, dal canto suo, ritiene che il rifiuto di adottare una concezione non-epistemica di verità – ossia una concezione il cui fulcro sia costituito da una relazione di totale corrispondenza fra le nostre espressioni linguistiche e gli elementi del mondo che quelle stesse espressioni dovrebbero rappresentare – non debba affatto implicare l’abbandono di standard ideali di verità e razionalità che trascendano i limiti del contesto storico-culturale dato; al contrario, Rorty si rifiuta di accordare qualsivoglia genere di normatività alle nozioni di giustificazione, asseribilità e accettabilità razionale, lasciando spazio unicamente a una concezione storicistica delle norme, da lui intese come prodotti dell’evoluzione che si radicano in particolari circostanze e vocabolari. In altre parole, come scrive Roberta Corvi, «mentre Rorty pretende di non curarsi affatto della verità, negando che sia rilevante la distinzione fra ciò che sembra vero e ciò che lo è effettivamente, per Putnam la conoscenza non può avere come obiettivo solo ciò che pare vero a qualcuno o ai membri della sua cultura» (p. 151). Così, lascia intendere l’autrice, Putnam è in grado di accogliere l’argomento di ispirazione wittgensteiniana – ripreso poi da Rescher – per cui il relativismo non è in grado né di distinguere fra l’aver ragione e il credere di aver ragione né di individuare un criterio in base al quale poter giudicare cosa è migliore e cosa è peggiore.
In definitiva, allora, non possiamo rispondere in maniera univoca alla domanda su che cosa significhi essere pragmatisti oggi, dal momento che la risposta a questa domanda dipende strettamente dalle singole personalità dei filosofi che si ispirano al pragmatismo classico, il quale presenta a sua volta diverse varianti. In tal senso, il volume di Roberta Corvi – grazie inoltre a un vasto apparato bibliografico e a una notevole quantità di note – fornisce un’assai utile panoramica del pragmatismo contemporaneo, orientando proficuamente il lettore all’interno di uno scenario multiforme e complesso, non mancando peraltro di indirizzarlo verso lo studio di un’alternativa – appunto, l’alternativa Rorty-Putnam – che ben esemplifica le variopinte sfaccettature della tradizione pragmatista.

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