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92. Recensione a: Anna M. Nieddu, Vinicio Busacchi (a cura di), Pragmatismo ed ermeneutica. Soggettività, storicità, rappresentazione, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 264. (Riccardo Cravero)

Un tempo probabilmente ritenuti, soprattutto per motivi geografici più che teorici, quasi mutualmente estranee, le tradizioni filosofiche del pragmatismo americano e della filosofia ermeneutica continentale sono da anni al centro di reti di scambi proficui di idee e concetti. Come i curatori affermano fin dall’introduzione, il libro vuole assolvere principalmente a due compiti. Innanzitutto, a livello storiografico, esso vuole rintracciare influenze, temi e sviluppi comuni alle tradizioni filosofiche del pragmatismo e dell’ermeneutica. Il secondo obiettivo, più teorico che storico, è quello di rintracciare alcuni temi di rilevanza per entrambe le tradizioni e di mostrarne lo sviluppo proficuo all’interno delle tradizioni ermeneutica e pragmatista. Tali tematiche sono in particolare quella dell’identità, della storicità e della rappresentazione. Su questi tre nodi teorici e sui loro sviluppi paralleli è impostato dunque il confronto. Il libro raccoglie interventi di studiosi non solo italiani ma di fama internazionale, studiosi afferenti ad una delle due tradizioni studiate oppure noti per aver operato sintesi del pensiero continentale con feconde suggestioni d’oltreoceano. Poiché non vi è spazio per discutere analiticamente i singoli contributi, tratterò a grandi linee ciascuno degli interventi, soffermandomi più a lungo su alcuni contributi che ritengo particolarmente stimolanti.
La prima sezione dell’opera, intitolata “Temi e questioni”, mira a mostrare storicamente come alcune tematiche sono diventate centrali in queste tradizioni e a ricercare le basi per un confronto. Proprio a quest’ultimo compito è chiamato il primo saggio della sezione, a cura di Anna Maria Nieddu. L’articolo va a ricercare due antenati nobili della tradizione pragmatista e di quella ermeneutica, mostrando come essi rappresentino uno spunto fecondo per ricostruire la storia di tali tradizioni filosofiche. Emerson e Nietzsche sono accomunati dal “contingentismo”, che riduce le pretese illuministico-positiviste della ragione e lascia spazio alla libertà umana rifiutando sia il meccanismo rigido che il riduzionismo. Alle derive volontaristiche e individualiste di Nietzsche l’autrice contrappone l’esortazione al positivo uso della libertà e della vita civile da parte di Emerson. Così, proprio il contingentismo positivo, che rende conto del carattere indeterminato e aperto alla libertà della conoscenza diventa il trait d’union tra pragmatismo ed ermeneutica, ma anche tra altri filoni di ricerca filosofica che hanno assunto tale dato come punto di partenza della loro riflessione.
Il secondo contributo della sezione “Temi e questioni” è firmato da Hans Joas. In questo articolo, il sociologo e filosofo tedesco tratta non di un generico incontro tra due tradizioni di pensiero, ma di un incontro per così dire “incarnato” nella figura di una persona. Elevando a titolo di esempio Mead e Troeltsch a rappresentanti dello storicismo ermeneutico e del pragmatismo, egli rintraccia nell’opera del teologo Richard Niebuhr la convergenza di alcune tematiche sviluppate dai due autori. Nella sua mediazione tra la neo-ortodossia di Barth e la storicizzazione operata da Troeltsch, Niebuhr si serve soprattutto di strumenti ermeneutici, arrivando a considerare la rivelazione divina un evento significante, capace di dare senso ad un insieme di eventi altrimenti insensato. Joas non solo compie una interessante disamina storica del pensiero di Niebhur, ma ne mette in luce anche lo statuto di “punto d’incontro” tra tradizioni.
Johann Michel presenta invece nel suo breve testo i capisaldi della sua teoria dell’Homo interpretans. Fin dall’inizio, l’autore dichiara che la differenza tra il suo progetto e altri filoni dell’ermeneutica post-heideggeriana è data dall’accento sulla dimensione antropologico-pragmatica anziché metafisico-ontologica. Non è tanto importante sapere che rapporto intercorre tra Essere e interpretazione, quanto piuttosto chiedersi: perché a volte ci si chiede di interpretare? Quando lo facciamo? La nostra esperienza è spesso data per scontata, incastonata in quelle che Dewey definiva abitudini, ovvero modalità di azione predefinite e irriflesse, ma quando si presenta un elemento dissonante, un incidente, qualcosa di nuovo rompe l’equilibrio e innesca una ricerca volta alla composizione della problematica, nella forma dell’inquiry. E questo è un processo necessariamente interpretativo (ma non vale il contrario: l’indagine è sempre interpretazione, ma l’interpretazione non nasce sempre come indagine). Il pragmatismo si scopre così ermeneutico, e l’ermeneutica esce da un suo eventuale riduzionismo (che arriva a rendere priva di senso la distinzione tra percezione e interpretazione, perché se tutto è interpretato, allora che cos’è interpretazione e che cosa non lo è?). Un ermeneutica pragmatisticamente temperata distinguerebbe invece tra vissuti irriflessi e abitudinari e interpretazioni vere e proprie, chiedendosi appunto quand’è che siamo spinti a divenire homines interpretantes.
Dopo l’intervento di Michel, che a mio avviso rappresenta un’ottima conclusione della prima parte del libro, ha inizio la seconda sezione, decisamente più lunga e corposa. Apre questa sezione il contributo di Maria Rosa Calcaterra, che introduce il neopragmatismo di Rorty. Il nome del filosofo americano è per molti legato alle sue corrosive critiche delle pretese fondazionalistiche della filosofia moderna, ma Calcaterra opta qui per il contributo di Rorty all’“epistemologia del sé”, ovvero alla teoria dell’identità personale. In Rorty è stato soprattutto il tema della costruzione dialogica del sé ad assumere un ruolo centrale. Il filosofo americano adotta un approccio che non ha problemi a dirsi “etnocentrico”, ovvero conscio della irriducibile particolarità e non universalizzabilità del punto di vista di ogni cultura. Il dialogo però “apre” al nostro comprendere le “ragioni degli altri” e così facendo ci aiuta a definire noi stessi in relazione agli altri. Rorty sviluppa il concetto di “vocabolario finale” (final vocabulary) per indicare (sellarsianamente) un insieme di descrizioni del mondo, di valori e di argomenti che possono essere mobilitati dal soggetto per sostenere le sue pretese. Ma ai vocabolari, particolari e relativi, fa da contraltare l’ironia, ovvero la capacità (di socratica memoria) di pensare potenzialmente false alcune delle proprie credenze e di metterle alla prova del dialogo con chi detiene “vocabolari” diversi dal nostro. Ma così come Derrida riteneva la giustizia un “indecostruibile” motore della decostruzione, per Rorty è la coesione tra i popoli e gli uomini, la solidarietà, a guidare il processo ironico. In questo continuo interplay di vocabolari, ironia e solidarietà, sta la proposta rortiana, di cui Calcaterra ha il pregio di delineare gli aspetti migliori, al di là delle note controversie da essa generate.
Il contributo di Marcelino Agis Villaverde, prende il via dalla stretta relazione tra testo e pensiero. La domanda del pensatore spagnolo è: perché il pensiero, naturalmente libero, sceglie (e ha bisogno) di affidare la propria espressione ad un linguaggio, anzi addirittura al linguaggio scritto della filosofia? Per Villaverde la filosofia compie un compromesso con la scrittura accettando di perdere la propria libertà di espressione, tipica del pensiero, in cambio della possibilità di tramandare nel tempo le sue acquisizioni, personalizzandole con un suo “stile”. Rifacendosi all’opera di Gilles Gaston Granger, l’autore sostiene che lo stile non è una mera forma rispetto al contenuto, bensì è inscindibile da quest’ultimo, poiché lo stile opera una selezione di contenuti semantici, lessicali e sintattici, ovvero di elementi fondamentali per il contenuto del testo. I filosofi ovviamente hanno stili diversi, diversi livelli di creatività o di sistematicità, ma ognuno usa un suo stile per dare forma al proprio pensiero. In questo modo, il racconto, sintesi di pensiero, scrittura e stile, è parte indispensabile e fondamentale dell’impresa filosofica, parte integrante del processo di esplorazione della verità.
Dopo l’intervento di Villaverde incontriamo il contributo di Rossella Fabbrichesi, che si è impegnata per buona parte della sua carriera a mettere in comunicazione pragmatismo e ermeneutica. L’autrice dichiara all’inizio dell’articolo di voler contribuire ad esplorare il contenuto pragmatista del pensiero di un autore raramente accostato a tale movimento, ovvero Martin Heidegger, passando per Aristotele. A differenza della fenomenologia husserliana, sostanzialmente incentrata su un rapporto statico tra soggetto e oggetto, da Aristotele Heidegger prende le mosse per un’analisi della “fatticità” dinamica del presente. La motilità della vita è ben resa dalla cura (Sorge), ovvero dal fatto che il mondo ci interessa, abbiamo a che fare con il mondo non con sguardo distaccato e teoretico, ma presi dai nostri bisogni e interessi. Essere vuol dire dunque essere coinvolto in azioni, agire o essere agito, avere cura o essere fonte/oggetto di cura. Il pensiero aristotelico aveva già creato le coppie concettuali poiesis/techne, pragma/phronesis e theoria/sophia, ma aveva privilegiato l’ultima coppia a scapito delle prime due. Ora, Heidegger ritiene che la dimensione pratica (pragma e dunque phronesis) sia stata poco valorizzata da Aristotele. Se già Aristotele doveva, quasi a malincuore, ammettere che la teoria (attività aristotelicamente più nobile) non poteva prescindere dalle altre due, Heidegger ritiene che la teoria non sia affatto da privilegiare rispetto alle considerazioni pratico-pragmatiche. Se la verità prasseologica, valutata caso per caso, è per Aristotele una forma deteriore di conoscenza, per Heidegger essa è la principale modalità di conoscenza umana. Alla theoria aristotelica, disgiunta dalla vita umana concreta, Heidegger oppone dunque una soluzione pragmatista. Il confronto con il pragmatismo mostra che vi sono spazi di divergenza tra la riflessione di Heidegger e la tradizione pragmatista, ma rimane un fatto evidente che l’influsso di Aristotele su Heidegger, pur nel distanziamento critico, ha aperto la strada ad un reinserimento della filosofia pratica nell’alveo della filosofia contemporanea. La bella trattazione di Fabbrichesi ben documenta la ricchezza di questa pagina della riflessione filosofica novecentesca.
Troviamo ora due articoli che mostrano le relazioni tra pragmatismo ed ermeneutica in ambito “continentale” e in ambito analitico. L’intervento di Giovanni Maddalena tratta infatti dell’influenza di temi pragmatisti in Foucault e Deleuze. In sintesi, Maddalena si augura una integrazione della filosofia del gesto foucaultiana e della riflessione di Deleuze sul cinema con elementi pragmatisti, ritenendola fruttuosa nel superare alcune aporie di entrambe le tradizioni.
Il contributo di Giancarlo Marchetti ricostruisce invece l’itinerario verso l’antirappresentazionalismo compiuto da Richard Rorty. Le critiche di Rorty alla teoria corrispondentista della verità sono note, ma esse scaturiscono da un serrato confronto con pensatori analitici “eccentrici” (Davidson, Quine, Sellars) e con autori pragmatisti (James e Dewey). Marchetti ripercorre dunque l’itinerario del pensatore americano nel decostruire la teoria della “mente come specchio” e della “verità come rappresentazione”. Da William James, che alla corrispondenza preferisce una concezione attiva del rapporto mente-mondo, capace di rendere la verità un evento e non qualcosa di “dato” e statico, a Dewey che rifiuta la teoria corrispondentista della verità, per motivi sia logici che pragmatici, poiché presenta contraddizioni interne, aporie e perché in ultima analisi non riesce a rendere conto del concreto agire umano, fino a Davidson, pensatore di marca analitica noto per le sue obiezioni all’esistenza di fatti discreti e identificabili come truth maker (per conseguenza dello “slingshot argument”), Marchetti mostra l’origine variegata del pensiero di Rorty.
Il contributo di Vinicio Busacchi verte sulla metodologia delle scienze storiche a partire dal rifiuto gadameriano di un metodo preciso per le analisi ermeneutiche. L’autore tratta di interpretazioni giustificate e scientifiche, come quelle richieste dalle discipline storiche. Per farlo, ecco che il pragmatismo si rivela strumento adatto ad una reinterpretazione delle categorie ermeneutiche classiche. Busacchi ritaglia una proposta pragmaticamente orientata: per l’interprete pragmatista, l’interpretazione è sempre connessa con la semiotica e con la teoria del significato: i problemi della verità, della giustificazione e della verifica cognitiva di quanto detto sono imprescindibili. Peirce e Ricoeur diventano quindi i due riferimenti teorici della proposta delineata: entrambi fallibilisti ma consapevoli della possibilità di un miglioramento della conoscenza, essi riescono a far fronte ai problemi dell’interpretazione senza subire derive relativiste.
Dopo il contributo di Busacchi, incontriamo (nuovamente) Michel Foucault, stavolta trattato da Kenneth Stikkers. L’autore parte da un punto ben noto dell’itinerario filosofico del pensatore francese, ovvero la nascita di una teoria etica fondata sulla “cura di sé”. Per ricostruire la genesi di questa intuizione foucaultiana, dobbiamo prima osservare gli effetti della modernità sulla mentalità dell’uomo contemporaneo. Se con il “disincanto del mondo” è nata una logica che distingue secondo criteri di identità e differenza, in ambito protestante si possono trovare esempi di resistenza alla modernità. La logica della rassomiglianza permane infatti nel pensiero americano post-puritano di Thoreau ed Emerson: ad esempio per Emerson, la Natura è simbolo dello Spirito, ma non simbolo poetico, immaginifico, bensì segno ontologico. La vita è dunque un’“estetica dell’esperienza”, atta a cogliere nel mondo le analogie esistenziali che istruiscono chi le sa cogliere. L’autore prosegue trattando delle influenze che tale concezione emersoniana della vita ebbe sulla pensatrice e anarchica Emma Goldman e attraverso di lei su John Dewey. Senza calcare la mano sulla nozione di soggetto, ormai poco solida una volta privata della sua radice metafisica, il pragmatismo può diventare una via diversa verso l’estetica della vita, capace di mettere al centro della sua riflessione la vita etica individuale.
Ritengo particolarmente interessante il contributo di Brendan Hogan, che tratta di filosofia delle scienze sociali. In effetti, ermeneutica e pragmatismo sono da sempre entrati in dialogo con le scienze sociali, dialogo assai spesso fecondo e reciproco. Il contributo di Hogan parte da una constatazione: la disciplina non ha ancora una cornice teorica metasociologica unitaria. Hogan distingue tre schieramenti: i naturalisti-positivisti, gli ermeneutico-interpretativisti e gli esponenti della sociologia critica. L’autore dichiara qui di voler proporre una alternativa a questi schieramenti, basata su soluzioni pluraliste e pragmatiste ispirate al pensiero di John Dewey. Il pensatore americano è noto per la sua tendenza a dissolvere sterili dualismi e a sostituirvi soluzioni pratiche e contestuali. Si tratta di vedere che cosa questo può comportare per una filosofia delle scienze sociali. Come sempre in Dewey, il punto di partenza è l’inquiry, l’indagine quotidiana. In essa, quando dobbiamo comporre una situazione problematica, selezioniamo strumenti e metodologie di ricerca adatte a tale scopo particolare. Così per Dewey avviene anche nelle scienze sociali, finché tuttavia non avviene una ipostatizzazione di una particolare metodologia, assunta ora come metodo prescrittivo e non come procedimento euristicamente efficace. Al contrario, il filosofo propone di contestualizzare la ricerca sociale in un “General Pattern of Inquiry”. Il primo passo di questa indagine è soprattutto l’interpretazione di situazioni tramite la connessione di fatti, connessione operata in accordo con le esigenze dell’interpretante. Interpretare è dunque una faccenda particolare e calata nella pratica. Ma tale continuità tra tutte le modalità di inquiry non toglie la specificità delle scienze sociali rispetto a quelle naturali: esse sono distinte ma non contrapposte, accomunate dal metodo dell’indagine ma operanti con diversi oggetti di studio.
Conclude l’opera l’articolo di Michela Bella e Matteo Santarelli. In esso i due autori mostrano come un problematico dualismo tra aspetti biologici e aspetti linguistici dell’opera freudiana abbia ricevuto diversi trattamenti nell’opera di Paul Ricoeur e in quella di Richard Rorty. Nell’interessante articolo si noteranno soprattutto le diverse strade intraprese dai due filosofi, ma emergerà anche una convergenza. Proprio su questo punto in comune, ovvero il riconoscimento della compresenza di impulsi pre-linguistici ed aspetti ermeneutici, si innesta fecondamente una analisi pragmatista, il cui sviluppo è auspicato dagli autori.
In conclusione, l’opera presenta numerosi stimoli alla riflessione, avventurandosi non solo tra le due tradizioni citate nel titolo ma anche tra molte altre prospettive della filosofia contemporanea. Richard Bernstein ebbe un tempo a dire che il pragmatismo andava interpretato non in quanto tradizione unitaria ma come filo conduttore degli sviluppi della filosofia novecentesca da ambo i lati dell’oceano, sia in ambito analitico che in quello continentale. Il confronto qui intrapreso con l’ermeneutica, la psicoanalisi e lo storicismo conferma quanto detto dal pensatore americano. Una possibile criticità potrebbe essere rappresentata proprio dall’eterogeneità dei contributi, ma se si considera l’opera in questione più come una panoramica che come un insieme coerente di testi, allora essa offre un’amplissima mole di suggestioni per sviluppare in modo originale alcuni dei più fecondi spunti della filosofia contemporanea. La presenza di contributi in lingua straniera (inglese, spagnolo e francese) riflette il respiro internazionale dell’opera: affiancando nomi ormai noti ad autori meno famosi, il volume restituisce al lettore la profondità e la feconda complessità delle interazioni tra il pensiero ermeneutico ed il pragmatismo.

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