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98. Recensione a: Giorgio Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 112. (Paola Puggioni)

Il libro di Giorgio Agamben A che punto siamo? L’epidemia come politica costituisce una raccolta di tutti gli interventi che il filosofo ha articolato in riferimento all’emergenza sanitaria che stiamo vivendo. Nonostante molti di questi interventi siano stati oggetto di discussione e polemica, la raccolta costituisce una preziosa fonte di riflessioni che non può essere ignorata.
Il punto focale del testo è volto a far emergere in che modo si stia verificando un grande mutamento nelle democrazie occidentali, denunciando la trasformazione dello stato di eccezione in una prassi tesa a diventare la normalità.
In Homo sacer Agamben aveva già messo in evidenza tutta una serie di tematiche non trascurabili, prima fra tutte quella inerente alla biopolitica, constatando come la politica si stesse velocemente e silenziosamente appropriando della vita biologica. Nel volume Il potere sovrano e la nuda vita il filosofo scriveva: “l’ingresso della zoé nella sfera della polis, la politicizzazione della nuda vita come tale contribuisce l’evento decisivo della modernità, che segna una trasformazione radicale delle categorie politico-filosofiche del pensiero classico” (G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, pp. 6-7). Questa stessa riflessione è ampliata ed approfondita nella raccolta in questione, focalizzando l’attenzione sul concetto di “biosicurezza”, intesa come cessazione di ogni attività politica e di ogni rapporto sociale. Da tale concetto sorgono delle acute domande che la nostra società dovrebbe coscienziosamente porsi: fino a che punto si può protendere la difesa della vita biologica? Si è pronti ad annullare una società in nome del bios? La pratica del “distanziamento sociale” è da intendersi come esplicitazione del nuovo modello politico? È proprio a partire da questi interrogativi che Agamben sviluppa una serie di analisi volte a constatare un importante mutamento nell’assetto politico e sociale dell’Occidente: in nome della biosicurezza, nuovo paradigma che lentamente si sta radicando all’interno delle società, saranno sacrificate tutte le altre esigenze. Di qui l’importanza di mettere in discussione la società “umana”: “è legittimo chiedersi se una tale società potrà ancora definirsi umana o se la perdita dei rapporti sensibili, del volto, dell’amicizia, dell’amore possa essere veramente compensata da una sicurezza sanitaria astratta e presumibilmente del tutto fittizia” (13. Biosicurezza e politica). Questa stessa mancata umanità viene rinvenuta nelle dinamiche atte ad individuare il “potenziale untore”, paragonato da Agamben al terrorismo, che considera ogni cittadino come un terrorista in potenza, abolendo, così, il prossimo. A dimostrazione di ciò, una delle pagine più dense (3. Chiarimenti) delinea in maniera lucida e critica le modalità attraverso le quali la paura sta annullando ogni tipo di razionalità, al punto da dichiarare che la nostra società crede solo in un’unica cosa: la nuda vita. La riflessione si concentra su una questione delicata, riguardante la prevaricazione della vita biologica (nuda vita) su qualsiasi altro tipo di azione sociale, che spinge l’essere umano a negare, addirittura, il funerale ai morti: “che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?” (3. Chiarimenti).

Legittimando il rischio, la lettura che si propone oggi dei rapporti sociali è quella del “possibile corpo di contagio”. La spersonalizzazione è al centro della situazione attuale e, forse, sarebbe da considerarsi come il rischio più autentico incontro al quale l’umanità sta andando.
In nome della biosicurezza, a detta del filosofo, si inaugura una nuova dimensione cultuale, ovvero quella della medicina. Avviando il discorso dalla considerazione del capitalismo nei termini di motore immobile della nostra società, la riflessione viene problematizzata e rapportata alla scienza (12. La medicina come religione). Recuperando la struttura di Capitalismo come religione di Walter Benjamin, si decreta il valore cultuale non solo del capitalismo, ma anche della scienza medica. Proprio quest’ultima, diramandosi in numerose pratiche, segmenta il trattamento di cura come in una fabbrica. Il carattere interessante, sul quale il filosofo medita, evidenzia come non si tratti più di rivolgersi ad un medico unicamente per una visita, o di sottoporsi a qualche intervento curante: la vita intera degli esseri umani diviene, in ogni istante ed in ogni luogo, celebrazione cultuale ininterrotta, poiché il nemico (in questo caso il virus) è sempre possibile.
Annunciando l’abdicazione dei principi etici e politici, nella raccolta viene riletta la situazione attuale alla luce del paradigma dello stato di eccezione. Riprendendo la definizione schmittiana, contenuta in Teologia politica, per cui “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, Agamben rileva come il termine indichi la zona di indeterminatezza tra la sfera del diritto e la sua sospensione. L’emergenza, pertanto, richiama al ripristino della normalità, mentre l’eccezione infrange la regola, imponendo un nuovo ordine. Di qui la distinzione tra lo stato di emergenza, che presuppone la stabilità di un sistema, e lo stato di eccezione, che disfa completamente il sistema. La grave mancanza della categoria dei giuristi, per Agamben, è quella di aver taciuto davanti alle decisioni attuate dal Governo, giustificando il sistema in atto con argomentazioni opinabili, che esulano dalle proprie competenze. Osservando lo stato di eccezione che stiamo vivendo, il filosofo mostra come la religione medica congiunga la crisi del capitalismo con la crisi cristiana di un tempo ultimo, in cui la decisione estrema è perpetuamente in corso e la fine viene percepita nel tentativo di poter essere governata. Qualsiasi pratica, ora, dovrà sottostare al nuovo paradigma della biosicurezza, procedendo alla violazione dei principi morali, attuati dalle democrazie, per tenere sotto controllo la pandemia. Basti pensare alle soluzioni che sono state proposte per individuare i possibili corpi-vivi di contagio, quali le applicazioni di tracciamento da installare nei telefoni, capaci di intercettare il nemico. La raccolta mostra in che modo tutti questi escamotage mettano a repentaglio i valori etici, morali e sociali dell’umanità, destabilizzandone l’asse prettamente democratico.
I saggi mettono in luce un aspetto che dovrebbe aiutare a comprendere meglio i nuovi assetti delle democrazie occidentali, prendendo atto del fatto che l’epidemia non verrà definitivamente sconfitta dalla religione medica; al contrario, essa si evolverà in forme più rischiose. Dal momento che il nemico è invisibile, tutte le nazioni sono perennemente in guerra con sé stesse e l’aspetto fondamentale, che è il nucleo stesso della raccolta, è che il nemico con cui siamo in lotta, per il filosofo, è solo dentro di noi. Altre emergenze potrebbero presentarsi, soprattutto nel mondo globalizzato all’interno del quale viviamo e, osserva Agamben, se ci si abitua all’idea che queste possano essere governate solo ed esclusivamente dichiarando uno stato di eccezione, accade che questa stessa eccezione si tramuti in regola, mettendo in discussione la libertà individuale. La pandemia, e di conseguenza la sua gestione, altro non ha fatto che estremizzare determinate pratiche già vigenti nel nostro mondo.
Paura, rischio, pericolo, distanziamento sociale, culto medico, permettono di governare una situazione estrema e, a lungo termine, profetizza Agamben, queste stesse ragioni di sicurezza permetteranno di far accettare ai cittadini delle limitazioni, realizzando nel “distanziamento sociale” un nuovo modello di vita politica, governato dalle tecnologie dei dispositivi che ridurranno i rapporti sociali nella loro fisicità. Probabilmente, ciò che sta accadendo in questo periodo a livello sociale costituirà un importante punto di riflessione volto a rifondare i principi etici della comunità che, ad oggi, pare essersi persa nel baratro del rischio. È a questo punto che si spiega la necessità di porsi la domanda che dà il titolo al libro: a che punto siamo?

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