Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita (Homo sacer, IV, I, 2011) è il primo volume pubblicato da Agamben nella quarta sezione della serie Homo sacer. In questa parte della ricerca, secondo l’autore, le nozioni di “forma-di-vita” e di “uso” verso cui convergono le sue indagini archeologiche si mostreranno nella loro luce propria. Il saggio svolge un’indagine sul rapporto tra “regola” e “vita” nel monachesimo dal IV al XIII secolo, e in particolare sulla teoria francescana dell’usus pauper delle cose, che individua come un “uso” irriducibile alla proprietà attraverso il quale i frati tentarono di sottrarsi al diritto. Altissima povertà viene pubblicato contemporaneamente a Opus Dei. Archeologia dell’ufficio (Homo sacer II, 5, 2012), il testo in cui culmina la genealogia teologica del governo avviata ne Il Regno e la Gloria (Homo sacer II, 2; 2007), e ne costituisce in un certo senso la pars construens. Se Opus Dei mette in luce il modo in cui la liturgia ecclesiastica, elaborando la funzione sacerdotale, cerca di catturare la prassi contingente dell’uomo e di farla coincidere con l’azione di Dio, Altissima povertà mostra la nascita dei monasteri cristiani come un tentativo di disattivare il dispositivo liturgico, di invertire la subordinazione dell’agire particolare del sacerdote al governo divino, legando l’efficacia del sacramento alla sua realizzazione attraverso la vita stessa del monaco. La ricerca mostra come i monaci riferiscano sempre la liturgia al modo concreto del suo esercizio, rivendicando un rinvio reciproco tra “regola” e “vita”, una forma vitae nel linguaggio del francescanesimo, che il testo indica come «una vita che si lega così strettamente alla sua forma da risultarne inseparabile» (p. 7). Agamben afferma che la forma-di-vita è un «qualcosa di inaudito e di nuovo»(p. 8) che nel monastero «si è ostinatamente avvicinato alla propria realizzazione e l’ha ostinatamente mancata» (ibid.), in quanto i monaci, vincolando i singoli aspetti della vita comune alla servitù di Dio e alla sua celebrazione, non sono riusciti a risolvere il loro rapporto con la liturgia. Nondimeno, egli tenta di sviluppare e di radicalizzare il rapporto tra “regola” e “vita” formulato nei documenti della vita monastica, mostrandolo come un’oscillazione irrisolvibile fra legge e vita, fatto e diritto, che rivela un terzo, un medio fra essi, che in riferimento al francescanesimo l’indagine indica come un nuovo possibile “uso” comune della vita e delle cose.
“Regola” (regula) è il nome del testo che ordina la vita del monastero: ogni comunità di monaci fa cioè riferimento a una regola quale documento costituente. Agamben rileva l’impossibilità di ascrivere le regole a un genere letterario definito. Esse sono composte a volte da una serie minuziosa di precetti, che riguardano ogni singolo dettaglio della vita dei monaci, in alcuni casi consistono nella trascrizione fedele di un dialogo che ha luogo nel monastero o, più spesso, sono solo la narrazione storica della vita del monaco fondatore. Gli studiosi delle regole non le definiscono propriamente come leggi, né però le considerano come semplici indicazioni, “consigli”. In effetti i precetti delle regole, riferendosi ai più piccoli dettagli della vita dei monaci e riguardando ogni aspetto della loro esistenza, non possono venir intesi come obbligatori, in quanto un singolo monaco non potrebbe mai eseguirli tutti, e dunque non consistono in un insieme di leggi che egli dovrebbe applicare alla realtà. «Che cos’è una regola – chiede Agamben – se essa sembra confondersi senza residui con la vita? E che cos’è una vita umana, se essa non può più essere distinta dalla regola?» (p. 15). L’adesione del monaco alla regola non consiste nell’osservazione di precetti determinati, ma riguarda il rapporto tra la regola e la vita e tra la vita e la regola. Colui che entra nel monastero «non si obbliga, come avviene nel diritto, al compimento di singoli atti previsti nella regola, ma mette in questione il suo modo di vivere, che non si identifica con una serie di azioni né si esaurisce in esse […] [come scrive Tommaso] “i monaci non promettono la regola, ma di vivere secondo la regola” […] l’oggetto della promessa non è più qui un testo legale da osservare o una certa azione o una serie di comportamenti determinati, ma la stessa forma vivendi del soggetto» (pp. 73-74).
Se il monaco vive ogni momento della sua vita in relazione alla regola, questa non è una legge, ma – afferma Agamben – la “forma” che permette ad ogni momento di costituirsi come “esemplare”, “paradigmatico” della vita comune del monastero. Ma in che senso l’esempio e il paradigma permettono di pensare il rinvio reciproco tra regola e vita che caratterizza la comunità cenobitica? Il testo Signatura rerum. Sul metodo (Bollati Boringhieri, Torino, 2008) afferma che «il paradigma è un caso singolo che viene isolato dal contesto di cui fa parte, soltanto nella misura in cui esso, esibendo la propria singolarità, rende intellegibile un nuovo insieme, la cui omogeneità è esso stesso a costituire. Fare un esempio è, cioè, un atto complesso, che suppone che il termine che funge da paradigma sia disattivato dal suo uso normale, non per essere spostato in un altro ambito, ma, al contrario, per mostrare il canone di quell’uso, che non è possibile esibire in altro modo» (p. 20). L’esempio è una forma di conoscenza che non procede articolando universale e particolare, in quanto ne mette in questione l’opposizione dicotomica: nella logica paradigmatica è solo l’esibizione del caso singolo come esemplare che definisce la regola costituendo un insieme. In questo senso l’esempio è un terzo tra l’universale e il particolare, tra la regola e la vita, che non appare però se non attraverso il loro duplice rapporto, la loro indiscernibilità. Per il monaco, abbandonare il contesto normale e seguire la regola è trasformare ogni aspetto della propria vita in “esemplare” della vita comune, in quanto è un’esibizione della sua singolarità che, solo in virtù di quest’esibizione, si costituisce come appartenente a un insieme. Ciò permette di comprendere perché spesso il testo della regola consista solo nella narrazione della vita del fondatore del monastero: è cioè la stessa esibizione di ogni aspetto della sua esistenza come esemplare a costituire la comunità.
Le ricerche sulla nozione di potenza che accompagnano le indagini politiche di Homo sacer permettono di approfondire la logica dell’esempio, e di caratterizzare ulteriormente il rapporto tra regola e vita. Agamben, in particolare nei testi della seconda sezione di Homo sacer, giunge a mostrare la potenza come ciò che resta inevaso nell’atto, e dunque lo revoca, ma non si pone per questo come una dimensione separata, il cui sottrarsi riapre ogni volta l’atto in una nuova determinazione, a un “nuovo uso”. Se la regola non consiste che nell’esibizione della singolarità di un momento della vita, che senza farlo uscire dal piano del singolare lo trasforma nell’esemplare di un insieme, è perché espone la sua singolarità a partire dalla sua potenza, come ciò che in esso si sottrae, e dunque lo revoca dal suo uso normale, ma non lo isola in tal modo in una sfera distinta, non lo revoca cioè se non per mostrarlo in rapporto con un altro momento singolare. I monaci, compiendo ogni azione secondo la regola, ne esperiscono la potenza come ciò ne che ne costituisce l’esemplarità, in quanto al contempo la revoca e la apre in una nuova azione. Una forma che consiste solo nell’esibizione di una singolarità a partire dalla sua potenza, e che la mette così sempre in rapporto con un’altra singolarità, è una forma-di-vita sempre in divenire, e la comunità a cui essa dà luogo coincide con la sua trasformazione.
Il dispositivo liturgico funziona mettendo al suo centro l’agire singolare del sacerdote, ma lo determina come ufficio in quanto lo fa coincidere nel sacramento con il governo divino. La liturgia tenta in tal modo di appropriarsi della potenza dell’agire dell’uomo, e di governarla, in quanto essa è ciò a partire da cui solo si può realizzare ogni azione, ma insieme ciò che ne impedisce una determinazione univoca, ciò che rende possibile ogni attualizzazione determinata, ma in quanto la apre sempre in una nuova configurazione. Tuttavia questa potenza sfugge a una cattura; la prassi dell’uomo infatti non si lascia identificare con il governo divino, dovendo questo ogni volta rinviare a un’altra azione singolare in cui realizzarsi. Se la liturgia tenta sempre di nuovo di catturare la potenza dell’agire dell’uomo e di confinarla nella sfera separata del sacramento, i monaci «cancellano la separazione e, facendo della forma di vita una liturgia e della liturgia una forma di vita, istituiscono fra le due una soglia di indiscernibilità carica di tensioni» (Altissima povertà, cit., p. 106). In virtù della subordinazione dell’agire concreto del sacerdote all’ufficio divino compiuta dalla liturgia ecclesiastica, il sacramento risulta efficace anche quando conferito da un ministro “indegno”, il che dal punto di vista del rapporto tra regola e vita risulta impossibile: «a una vita che riceve il suo senso e il suo rango dall’ufficio, il monachesimo oppone l’idea di un officium che ha senso solo se diventa vita» (p. 144). La regola conduce i monaci a vivere la loro vita come una «pratica incessante», nel cenobio «ogni gesto del monaco, ogni più umile attività manuale diventa un’opera spirituale, acquista lo statuto liturgico di un opus Dei» (p. 105).
Il sintagma forma vitae era usato nei monasteri francescani come rivendicazione consapevole di una vita non sussumibile dal diritto positivo. I monaci la perseguivano praticando la rinuncia ad ogni proprietà come povertà e usus pauper delle cose. Essi vennero combattuti dalla curia romana proprio perché un tale uso si situava in una sfera sulla quale il diritto civile non ha alcuna presa. Ma in cosa consiste un uso delle cose che non possa mai diventare un’appropriazione? I francescani lo definivano per lo più negativamente, come un «usare della cosa come non propria» (p. 156 sg.), esponendosi però così alle obiezioni della curia, in particolare di papa Giovanni XXII che, nella bolla Ad conditorem canonum, confutava la possibilità di separare uso e proprietà, identificando l’uso con una consumazione – che si risolverebbe in possesso – degli oggetti essenziali alla vita dei frati, quali cibi o abiti. Quest’obiezione condusse tuttavia i francescani a una definizione non solo negativa dell’uso. Francesco di Ascoli, per esempio, scrisse in risposta al papa che così come l’essere delle cose consumabili coincide con la loro trasformazione, e non è dunque riducibile a una proprietà, l’uso è sempre in fieri, consiste nel suo divenire. Bonagrazia invece indicò l’usus pauper come la pratica che definisce originariamente la comunità degli uomini, in quanto comune può essere solo l’uso delle cose e mai il loro possesso. Queste riflessioni secondo Agamben avrebbero potuto condurre a formulare una teoria dell’usus come habitus, come una pratica che non si sostanzi mai in un atto determinato, mentre il francescanesimo continuò per lo più a definirlo in via negativa, prestandosi alle critiche della liturgia ecclesiastica che divenne predominante. «Invece di confinare l’uso sul piano di una pura prassi – egli scrive – come una serie fattizia di atti di rinuncia al diritto, sarebbe stato più fecondo provarsi a pensare la sua relazione con la forma di vita dei frati minori, chiedendosi in che modo quegli atti potevano costituirsi in un vivere secundum formam e in un abito. L’uso, in questa prospettiva, avrebbe potuto configurarsi come un tertium rispetto al diritto e alla vita, alla potenza e all’atto, e definire – non solo negativamente – la stessa prassi vitale dei monaci, la loro forma-di-vita» (p. 172).
Nonostante il monachesimo non riesca a risolvere il suo rapporto con la liturgia, esso lascia intravedere una relazione inedita tra norma e fatto, essere e agire, una tensione irrisolvibile attraverso la quale essi appaiono come una forma-di-vita, come un uso del diritto che lo apre sempre in una nuova configurazione. Pensare l’uso come la dimensione dell’oscillazione tra regola e vita, della regola come esposizione della vita, e della vita come ciò che rinvia sempre a una nuova regola, equivale a pensarlo come un terzo ambito che, in quanto luogo del loro rimando sempre rinnovato, non consiste che nella sua trasformazione, si dà sempre come un “nuovo uso”. In tal senso l’habitus e l’uso emergono come la forma di una «vita che si mantiene in relazione non solo alle cose, ma anche a se stessa sul modo dell’inappropriabilità» (p. 171), che i prossimi volumi della quarta sezione di Homo sacer dovranno permettere di caratterizzare ulteriormente.